sabato 17 aprile 2010

Tutti gli interventi svolti durante la presentazione di "Bagni Achei". Ragusa 16 aprile 2010. Presso il Centro Studi Feliciano Rossitto. Parte 1

Ho pensato di raccogliere in due post tutti gli interventi svolti durante la presentazione di "Bagni Achei", avvenuta a Ragusa, venerdi 16 Aprile 2010, presso la sala conferenze del Centro Studi Feliciano Rossitto. L'evento è stato promosso unitamente dall'associazione "La Meglio Gioventù" ed il "Centro Studi Feliciano Rossitto". Per quanto riguarda il mio intervento, che trascrivo subito qui di seguito, ho deciso di postare (come si suol dire nel gergo dei blog), la versione integrale di ciò che avrei dovuto dire e, ringraziando i superni divini, poi alla fine ho deciso di evitare. Mi riferisco al fatto che essendo eufemisticamente un poco lunghetto, come intervento, poi ben difficilmente avrei potuto fare a meno degli sguardi feroci del paziente pubblico. Come dicevo, fortunatamente ho desistito. Ringrazio ancora una volta tutti coloro che erano presenti, gli organizzatori (le due associazioni) e i relatori tutti (Giuseppe Nativo, Giovanni Denaro e Giorgio Sparacino che oltre a nobilitare varie parti del mio libro con la sua eccezionale interpretazione, ha anche letto lo scritto dell'amico Guglielmo Emmolo)
Buona Lettura.

Iachino: l'ira come aspirazione repressa e latente (pensieri integrali per una presentazione di un libro). di Gaetano Celestre

Molto spesso mi si chiede il motivo del titolo “Bagni Achei” e altrettanto spesso ho trovato grosse difficoltà nello spiegarlo. La difficoltà sta nel non poter delimitare una sensazione dai contorni sfumati, in poche e concise parole. Proverò in qualche modo a spiegarne il senso. Non dovrebbe mai spiegarsi il senso di ciò che è frutto dell’intelletto? Ogni persona che osserva un’opera di artigianato (in questa eccezione parlo di arte) ne dà la propria interpretazione, sempre giusta eppur opinabile. Non vedo perché non possa anche l’artigiano stesso dare una interpretazione di ciò che è scaturito dalle sue mani quanto dal proprio capo, senza per questo inorgoglirsi troppo nell’idea che possa essere la visione più esatta. E veniamo al libro, che parla di bisogni, in tutti i sensi. Mi si conceda la poco elegante immagine, ma essendo che almeno due delle scene-madre di Bagni Achei avvengono in bagno, parlo anche di bisogni materialmente fisiologici. Comunque tra i bisogni principali di Gioacchino, c’è quello di farsi altro rimanendo se stesso, per non patire più le pene inflittegli dai suoi insulsi superiori. Stiamo parlando della stessa esigenza che ebbe Achille quando pervaso dall’ira funesta addusse quegli infiniti lutti. Dunque Achille si arrabbia. Sbaglia?
Ci mancherebbe altro. Immagino questo guerriero fortissimo ed attesissimo, e però già innervosito sin dalla partenza in Aulide. Lì infatti, tramanda Euripide, le navi di Agamennone sostavano forzatamente a causa di venti non favorevoli. Calcante l’indovino, gran geniaccio, si pronuncia dicendo che i venti mai saranno favorevoli senza il sacrificio di Ifigenia, figlia del Re delle genti Achee Agamennone. Così, consigliati da quell’imbroglione di Ulisse, fanno venire in Aulide la mischinedda Ifigenia, con la scusa che sarebbe stata data in sposa ad Achille. Le cose poi andarono diversamente, come si sa. Dunque ecco il primo elemento: Achille è stato messo in mezzo ad una storia che non gli riguardava senza che ne sapesse nulla. È legittimo che abbia cominciato ad innervosirsi? Quante volte accade che si facciano nomi di gente ignara per invogliare a far cose che mai si sarebbero fatte altrimenti. Oppure quante volte accade che ci si ritrova malvisti da qualcuno perché un terzo, dicendo magari cose non del tutto vere, ha parlato di noi senza che ne sapessimo nulla. Diciamo che Achille, giunti sulle rive dello Scamandro, già non vedeva di buon occhio Ulisse né tanto meno Agamennone, il suo capo. Come se non bastasse, Agamennone gli ruba Briseide, che nei primi scontri era stata catturata, quale preda di guerra, dallo stesso Achille. E gli si può dare torto ad Achille se decide in quel momento di non combattere più? Che se la vedano loro, in fondo quella guerra neanche gli interessava. Perché in effetti Elena c’entrava ben poco coi motivi di quella guerra. Come sempre accade, le ragioni stavano molto più negli interessi economici dei cosiddetti BIG, coloro che comandano e dirigono. L’unica cosa che avrebbe smosso l’eroe Acheo sarebbe stata l’uccisione del suo “amichetto” Patroclo. La fatidica goccia che fa traboccare il vaso. A quel punto Achille non vede in faccia più nessuno, che avesse di fronte il fortissimo Ettore o il raccomandato Enea (ricordiamolo che era un raccomandato e mai si sarebbe salvato, nei vari scontri con gli eroi achei, senza l’intervento della madre divina). Qualcuno potrebbe eccepire che è stato l’amore a smuovere l’ira e senza dubbio potrebbe essere una interpretazione anche valida. Sennonché io credo che le ragioni vadano cercate nel reiterarsi di situazioni sia sfortunate e casuali quanto di altre ben volute da gente che “poco suda” quale potrebbe esser stato Agamennone, Re degli eserciti. Un po’ come Gioacchino nella sua quotidiana normalità fatta di casualità quanto di vessazioni da parte di gente che a suo parere vale meno di lui. Mi riferisco ovviamente al suo preside (altro esempio di chi “non suda”), al bulletto Polinesso, ai tizi della TV, ai politici, la mafia e tutto il resto. Sono tanti tasselli di un mosaico che si è costretti a comporre nella vita e tante volte verrebbe la voglia di disfare, soprattutto quando, come nei puzzle, salta fuori quel pezzo che non sta in nessun posto. Insomma Achille impazzisce o si finge pazzo – come diciamo da queste parti - per risolvere quella situazione. Oreste invece, altro personaggio psicanalizzabile, si distingue da Achille in quanto viene colpito da pazzia subito dopo il gesto - l’uccisione della madre - e non preventivamente. Per questo la storia della letteratura da sempre, forse ingiustamente, lo condanna. C’è da dire che non ha saputo ben valutare i tempi. Diametralmente all’opposto del Chisciotte di Cervantes, che si direbbe impazzito quasi programmaticamente, così da poter uscire dalla noiosa vita gretta del ceto medio-borghese.
In poche parole siamo dinanzi alla “pazzia risolutrice”. E trattando di tale forma di follia, come non parlare del suo più grande teorico: Ludovico Ariosto, cui tanto deve Bagni Achei, sin dal nome dei due personaggi principali. Francesco De Sanctis, nella sua Storia della Letteratura Italiana, trattando dell’Ariosto e del Furioso, ne parla così: “Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno, e vi si seppellì per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita ad emendarlo. Si racconta che andasse sino a Modena in pianelle, e non se ne accorse che a metà della via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa c’era dunque nella sua testa? C’era l’Orlando Furioso. Niuna opera fu concepita né lavorata con più serietà. E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale o patriottico, di cui non era più alcun vestigio nell’arte, ma il puro sentimento dell’arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi.”

Costui era un sacrificato alla vita lavorativa, un uomo buono, come c’è tramandato, che mai ebbe un gesto di ribellione ed evidentemente aveva bisogno di sfogarsi in qualche altro modo:

129
Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro isculse l'epigramma.
Veder l'ingiuria sua scritta nel monte
l'accese sì, ch'in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.

130
Tagliò lo scritto e 'l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe' le minute schegge.
Infelice quell'antro, ed ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restar quel dì, ch'ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;

131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell'onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all'ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.

Salto….

134
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe' ben de le sue prove eccelse,
ch'un alto pino al primo crollo svelse:

135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe' il simil di querce e d'olmi vecchi,
di faggi e d'orni e d'illici e d'abeti.
Quel ch'un ucellator che s'apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l'urtiche,
facea de cerri e d'altre piante antiche.

Questi sono i versi del canto ventitreesimo dove Orlando finalmente impazzisce e chiarifica riguardo il titolo dell’opera che lo vede quasi protagonista. Maestro è l’Ariosto nel creare l’attesa, tutti aspettiamo che il paladino diventi furioso. Così come accade con Achille, ove l’ira funesta ci è anticipata sin dall’inizio. Ecco che la follia, genericamente, superficialmente considerata quale cosa negativa e in alcuni ambiti persino peccaminosa (Ira), diviene motivo di allegrezza e di completamento. Qualche attimo prima di tali versi, Orlando si accorge che tutto l’ambiente circostante è ornato da fregi riguardanti l’amore di Medoro e Angelica. Chiaramente si tratta di quelle incisioni da innamorati da strapazzo che da sempre sono di moda sulla terra. Medoro ama Angelica è un po’ come Peppy ama Vany. Una volta si usava incidere la corteccia, ora si usano i più sbrigativi spray o i lucchetti. Orlando cerca di calmarsi pensando che magari si tratta di qualche altra Angelica ma è in agguato l’inopportuno disturbatore inconsapevole. E al riguardo mi sovviene in mente un fatto accaduto al sommo Coleridge e di cui lui stesso parla. In pratica aveva sognato qualcosa di “inarrivabile”, probabilmente la “Verità” o non so che altra cosa che avrebbe chiarito per sempre all’umanità il significato più intimo di cose tipo la vita o similari. Subito si era alzato dal letto per trasmettere il tutto su carta, quando qualcuno bussò alla sua porta. Qualcuno del quale successivamente alla visita non ricordava più granché, oltre il fatto che gli era stato molesto e che probabilmente non lo conosceva. Si rimise a scrivere e a quel punto si rese conto di non ricordare più nulla del sogno. Ecco che allora il disturbatore assume anche la fisionomia divina, altro che inconsapevolezza. Ma rimanendo sulla terra, i disturbatori sono quei personaggi che nella vita reale esistono veramente, fastidiosissimi eppure divertentissimi per chi osserva da fuori. In pratica l’eroe con la durlindana incontra colui che gli racconta tutto - e nei minimi particolari- riguardo i due innamoratini. Per Orlando c’è una escalation di nervosismo in atto. E più cerca di trovare mentalmente delle giustificazioni, più l’altro gliele demolisce. Orlando dunque, almeno ad una lettura superficiale, impazzisce d’amore non corrisposto. Ma come ci lascia intuire Calvino, nella sua interpretazione, più nel profondo bisogna scavare. Come dicevo prima, l’Ariosto, da buon represso, avrà trasmesso i suoi fastidi al personaggio di fantasia. Ma non solo: Orlando, eroe fortissimo ed imbattibile, da almeno un poema e mezzo è in balia di una donna che se lo rigira come vuole. L’operazione del grande autore è quella di ridare vita ad un personaggio ormai ridicolo. Orlando riacquista dignità ed umanità. Se Iachino incontra la sua Angelica, che qui prende nome di Dike, è solo apparenza che questo possa significare lieto fine. Dike, sveliamo l’arcano, potrebbe essere la famosa figlia di Temi e di Zeus che ritorna sulla terra. Infatti il mito racconta che essa, in quanto Dea della Giustizia, ad un certo punto, stanca degli errori umani, se ne sia salita in cielo. Quindi la Giustizia concede una seconda opportunità a Iachino. Una opportunità che può essere più o meno recepita da quest’ultimo. Poteva essere la ricerca di una figura beatifica alla Beatrice, e invece ne viene fuori che Iachino se ne interessa ma solo fino ad un certo punto, quanto può interessare ad un essere umano: non tantissimo, neanche poco. E se questa giustizia anch’essa si umanizza e per ovvi motivi comincia a zoppicare, è comprensibile che neanche l’amore possa bastare per la sua elezione a motivo di vita. Allora c’è uno stare nella mediocrità, nella medietà. La stessa condizione cui giunge finalmente Orlando, per opera della sua pazzia e del genio di Ludovico Ariosto.
Gioacchino aspira alla furia - e ne ha ben ragione - la insegue, la sfiora eppure, forse anche a causa delle maledette convenzioni sociali, mai la raggiunge. Vede impazzire tutto quello che lo circonda, per converso. Si pensi alle visioni mistico-mitologiche ed a tutti gli strani incontri lungo il corso della sua Odissea. Poi ci sarebbe da riflettere su quanto sano possa essere il realissimo mondo del petrolchimico di Gela o degli stabilimenti di Priolo. È insano, nel modo di vedere comune, incontrare e dialogare con la Glaucopide Atena, o scherzare insieme a Cola pesce ma, sempre per quel modo di vedere comune, è accettabile ed umano sottostare alle storture di una speculazione edilizia che diviene distruzione dei luoghi amati. Persino giusto è avallare, in nome di non so quale irrinunciabile attesa di progresso, la costruzione di centrali nucleari e altre dissennatezze similari. Questi sono solo alcuni esempi, si potrebbe continuare quasi all’infinito. Allora la differenza tra i mostri che ad un certo punto vede Iachino e quelli che sono sotto i nostri occhi ogni giorno, qual è? La sola differenza sta nel fatto che questi ultimi sono sicuramente più mostruosi, malevoli anche nella loro inconsapevolezza, cattivi.
Forse, in chiave psicologica, qualcuno potrebbe dire che tali visioni del signor Gioacchino, sono il riflesso di un bisogno di giustificazione ed identificazione nei Divini Dei dell’Olimpo, per le cose che non riesce a giustificare sulla terra. Ma mi permetto, in quanto autore, di dissentire almeno parzialmente da questa posizione. Se Iachino vede gli Dei e ascolta gli alberi parlare, pur non riuscendo a comprenderli, saranno anche fatti i suoi. Non diamo a tutto una chiave psicologica, diviene sin troppo giustificante tacciare qualcuno di alienazione. Si assuma ognuno le proprie responsabilità. Iachino, in queste pagine, incontra realmente tali personaggi mitologici perché riesce ad entrare in una dimensione ulteriore del proprio io, quanto dell’interfaccia che lo circonda (mondo). Un livello di interrelazioni superiore a quello comune. Ciò avviene non perché sia più intelligente o più fortunato, avviene per fictio letteraria e per mia volontà cosciente. Mi spiego meglio: è come se osservando un pilastro in calcestruzzo, Iachino, dopo essersi accorto (primo livello dell’interfaccia) che è costituito da molecole, si rende conto della sostanziale univocità ed esistenza di ognuno degli atomi e scopre che ognun di questi ha un proprio nome e delle proprie esistenziali capacità. Ovviamente c’è dell’altro, come ad esempio il significato ultimo di queste cose, ma si sta parlando di ulteriori livelli di questa stessa medesima interfaccia, cui il mio amico non arriva anche per motivi strettamente legati alle conoscenze del suo autore. Preciso che l’autore sino ad oggi non ha mai avuto incontri mitologici se non con certi professori della facoltà di Giurisprudenza in Catania. Se Iachino va oltre l’autore stesso è solo grazie alla potenza della veridicità letteraria.
Questa capacità permette al soggetto in questione di riappropriarsi, almeno in certi frangenti, della propria soggettività divenendo Iachino, da Gioacchino che era. Iachino, nel suo vagare all’interno delle pagine, ricerca il suo senno (come Astolfo cerca quella di Orlando per conto di altri), senza averlo in realtà probabilmente perso. La cosa più grave, il suo peccato più grave è quello d’orgoglio, quando crede di dover cercare un senno al mondo. Il nostro mondo, sempre quello delle mafie, della politica corrotta e delle cose che non vanno, quello di cui parlavo poco fa; accanto a quello delle cose che invece ci appaiono piacevoli ed entro un certo limite giuste. Quando capirà che il mondo, lui, sono la stessa cosa; che non è mai così netta come crediamo la distinzione tra il bene ed il male, si sarà appunto riappropriato di sé, con la furia ancora e sempre latente.
Questa è l’Odissea di Iachino, nel mio modestissimo tentativo di integrare i due grandi classici della letteratura mondiale. In effetti, anche Odisseo, nel finale pressoché incompiuto dell’opera di cui è protagonista, fa operare la sua furia, quando con il suo arco uccide i proci. E per certi versi capisco il lettore che nel finale si attende Iachino finalmente fuor di gangheri. L’unica concessione che gli fa, è il non accettare la proposta di divenire precettore dei figli del proprio grande nemico, eterno vincitore. Ma rifiuta senza drammi, senza essere plateale. Niente arco né durlindana, gli basta voltare le spalle – e non c’è in alcun modo un sentirsi superiore in questo gesto. Iachino non è neanche uno sconfitto, in fin dei conti. Iachino è uno come tanti, che nella vita, alla fine pareggia. Il finale coi fuochi d’artificio non è umano, non è reale. D'altronde l’Orlando Furioso non si chiude anch’esso senza strepiti, con il matrimonio di Ruggiero e Bradamante, che daranno vita alla stirpe estense? In poche parole croce e delizia di Ludovico Ariosto, i suoi “datori di lavoro”, i suoi detrattori in campo letterario. Si pensi al cardinale Ippolito D’Este che seppur protettore del grande autore, sempre cercò di dissuaderlo dallo scrivere per impegnarsi nell’edificante attività lavorativa di amministratore. Addirittura definendo i suoi scritti delle mere “corbellerie”.
Insomma né vincitori, né vinti, come sempre accade nella realtà umana. Il gesto folle, esagerato, di sfogo, è simpatico, lo ripeto. Quando qualcuno, seriamente provato, si sfoga e fa saltare tutto in aria non può che ispirare simpatia. Ma nel mondo reale quanti di questi che lo fanno, conseguono poi il risultato conseguito dagli eroi letterari? E Iachino poteva forse aspirare ad un finale da eroe? Quanti di noi, qui sulla terra, possiamo aspirare all’eroismo? Ecco perché dinanzi alla scelta se fare o meno una pazzia, da esagitato scalmanato, molti di noi soprassiedono e si contentano di sfogarsi poi in altri campi: in palestra, sul campetto di calcio, sul foglio, etc, etc. Il pericolo sociale è quello che molti decidono di sfogarsi sul malcapitato di turno che non c’entrava niente – e questo è poco simpatico- ma tale discorso esula dal contesto di cui stiamo discutendo o se comunque possa in qualche modo rientrarvi lo fa incidentalmente al fatto che la colonna sonora di questo racconto è il jazz. Musica spigolosa eppur circolare, senza inizio ne fine, il cui personaggio di spicco è stato ed è, senza ombra di dubbio, Miles Davis. Uno degli Dei del gesto inconsulto, teorizzatore del fastidio all’interno del suo gruppo. Ricordo di aver letto da qualche parte che poco prima di un concerto, negli anni ’70, gli si era avvicinato per parlargli Keith Jarrett, all’epoca pianista della sua band - tra l’altro pianista classico, costretto dal geniaccio malefico a suonare un odiatissimo organo elettrico. Gli si rivolgeva per chiedergli cortesemente di intercedere presso il sassofonista, mi pare fosse Gary Bartz, perché non gli suonasse più sopra i suoi accordi. Subito Miles si recò dal sassofonista e con estrema, disarmante, gentilezza, gli disse che a Keith piacevano parecchio le cose che faceva mentre lui suonava i suoi accordi. Jarrett, d’altro canto, aveva visto Davis parlare con Bartz per cui si era convinto che tutto fosse stato risolto e chiarito. Immagino la sorpresa di Jarrett quando al primo suo assolo, Bartz aveva preso a suonare sugli accordi del piano con rinnovato vigore, come se niente gli fosse stato raccomandato. Si generò una scena inenarrabile, dove Jarrett guardava malissimo Bartz che a suo parere lo stava sfidando, Bartz non capiva il motivo di quegli sguardi feroci e credendo dovesse suonare ancora di più su quei benedetti accordi, non esitava ad esagerare. La verità è che quei concerti sono oggi ritenuti dei capolavori della musica. L’intento di Miles era quello di creare lo scontro all’interno del gruppo perché non si adagiasse su posizioni comode. Ma Miles era anche maestro nel prendersela col primo che gli capitava, senza alcun motivo apparente se non il suo senso di fastidio per altre cose non troppo inerenti. Vai ad entrare nella psiche umana... Quante volte una persona ci fa antipatia semplicemente perché ci ricorda qualcosa di spiacevole. La persona più affabile, gentile e divertente del mondo, potrà mai suscitare buoni sentimenti se ha gli stessi tratti facciali di Adolf Hitler o, in misura minore, di non so quale politico del nord penisola (senza voler per questo tacciare di simpatia i politici del sud, isole comprese)? Ecco, adesso siamo fuori-tema. Concludendo: Iachino nello sforzo di ricerca continua cui prefigge la propria esistenza, anche per tenersi impegnato e non fare spropositi, magari non si capirà mai del tutto, ma di sicuro ha compreso queste cose basilari: la sua furia, pericolosissima, latente quanto vana ed il bisogno di distrarsi - come faceva l’Ariosto, come probabilmente anche Omero, come da sempre fa l’umanità. Dunque lunghe passeggiate, interminabili bagni a mare, nella convinzione tutta erasmiana che, citando il famoso Elogio, così consiglia:

“Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Infuse nell'uomo più passione che ragione perché fosse tutto meno triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe. Se solo fossero più fatui, allegri e dissennati godrebbero felici di un'eterna giovinezza. La vita umana non è altro che un gioco della Follia.”


Gaetano Celestre

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