venerdì 23 dicembre 2011

28 Dicembre 2011 Presentazione Pugliese per "Il Giallo e l'Azzurro"

Mercoledì 28 Dicembre 2011
ore 18.00
Salotto Letterario Sen. G. Degennaro, L.go Teatro 7, Bitonto (Ba)



Cari amici, sono lieto di informarvi che, ad appena pochi giorni dalla pubblicazione del mio secondo romanzo "Il Giallo e l'Azzurro" (MJM Editore), mi è stata offerta la possibilità di presentarlo presso il prestigioso Salotto Letterario Sen. G. Degennaro di Bitonto. L'opportunità di presentare per la prima volta il romanzo sarebbe già motivo d'orgoglio ma questo è assolutamente nulla se posto a confronto con il fatto che la "cosa" è stato organizzata a sopresa da persone a me ben più che care. Grazie anticipatamente a tutti.
Ovviamente siete tutti invitati!
A Mercoledi...
Gaetano

"La verità storica , per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo avvenne." (J. L. Borges)

sabato 17 dicembre 2011

E così è stato pubblicato il mio secondo romanzo: "Il Giallo e l'Azzurro"




Cari amici, come al solito non so come iniziare il discorso, dunque vengo subito al sodo:
È stato appena pubblicato il mio secondo romanzo. Si intitola “Il Giallo e l’Azzurro”, edito da MJM Editore, e come genere si può ascrivere tra le fila della letteratura giallistica.  

Forse non il più classico dei gialli, ma è comunque contenente tutti i suoi elementi essenziali. Di sicuro c’è un detective che indaga, magari è un po’ sgangherato, come lo è il caso stesso, in fondo. Il tutto comincia, in un’afosissima e giallissima giornata siciliana, con la scomparsa dei gatti della signora Callà. Piero Menardo, nullafacente convinto di avere un futuro nel campo delle investigazioni private, cerca di venirne a capo. Lui probabilmente non si renderà conto di nulla, ma il lettore avrà senz’altro a che fare con delle verità scomode. Come sempre, tutto non è come appare.

Inoltre potrebbe anche risultare un’ottima alternativa per un “gradito” regalo natalizio!
Sì, lo so, è più “gradito” a me che a voi…ma a Natale siamo o non siamo tutti più buoni?

Vi segnalo il link dove potete acquistare Il Giallo e l'Azzurro : MJM Editore (link)

Buone Feste e Buona Lettura

Gaetano Celestre

venerdì 16 dicembre 2011

Avviso 16 - 12 -2011

Cari amici e lettori del blog, come vi avevo già preannunciato, è online il mio sito ufficiale all'indirizzo: http://www.gaetanocelestre.altervista.org/
Ma chistu già u sapievvu e dunque ora vengo a chiarirvi la ridondanza. Sto creando un nuovo blog all'indirizzo: http://gaetanocelestre.wordpress.com/
Ciò sempre per venire incontro ad esigenze di maggior chiarezza. E per l'occasione ho appena pubblicato un nuovo racconto dal titolo La Sostituzione della Vergine Ifigenia (link)

Invece questo blog rimarrà in vita solamente come vetrina per le informazioni brevi (come ad esempio il presente avviso).  
Almenu finu a quannu nun mi siddiu ri aviri tri indirizzi...


Colgo l'occasione per augurarvi buone feste.
A presto
Gaetano

sabato 5 novembre 2011

Premio Speciale Città di Palermo


Cari lettori, sono lieto di informarvi che ieri mi hanno conferito il "Premio Speciale Città di Palermo Subway Letteratura 2011". Non aggiungo parole per farvi partecipi di quanto ciò mi abbia piacevolemente sorpreso (intendo dire che potete benissimo immaginarvelo da soli senza che io vi annoi). Allego qui di seguito i links inerenti all'argomento. Grazie ancora!!!

Comunicato stampa in prima pagina su Subway Letteratura: http://www.subway-letteratura.org/

Il mio racconto: http://www.subway-letteratura.org/index.php?option=com_content&task=view&id=998&Itemid=91

Articolo dello scrittore Alberto Samonà:
http://www.lavika.it/2011/11/presentata-ieri-mattina-subway-letteratura-a-palermo-per-il-quinto-anno/

Articolo della giornalista Elisa Chillura:
http://www.balarm.it/articoli/arriva-subway-letteratura--i-juke-box-a-palermo.asp

Articolo di Guglielmo Pacetto per Post Scriptum:
http://blog.studenti.it/speakercorner/gaetano-celestre-il-nono-cavaliere/


mercoledì 26 ottobre 2011

Avviso

Avviso ai lettori del mio blog. 
Per chi è interessato a leggere i miei scritti in maniera più razionale, segnalo il mio nuovo sito:
http://www.gaetanocelestre.altervista.org/

"Il Frutto di Babele" di Roccasalva, Selvaggio e Denaro. Le mie riflessioni

La poesia non mi ha mai folgorato sulla via di Damasco della letteratura, lo dico con rammarico. Purtroppo non sono mai riuscito ad apprezzarla quel giusto che le è dovuto tra le varie espressioni artistiche possibili. A cosa ciò sia dovuto, cioè quale sia l’elemento estraneo al mio piacere, non lo so e non mi interessa indagare. Ciò che invece mi sembra più utile sottolineare è la contraddizione nel mio adorare taluni artisti, scrittori o registi, che fanno un uso poetico della loro fenomenologia d’espressione. 

Mi riferisco a Pessoa, a Borges o a Wim Wenders, o a Ludovico Ariosto, Platone e pochi altri. Questo breve preambolo non è per nulla finalizzato al voler esternare i miei gusti e preferenze in campo artistico. Sia perché non vedo cosa possa interessare ad altri. Ma soprattutto perché l’intenzione è quella di voler identificare un momento comune a molti: noi esseri umani amiamo la poesia senza saperlo né volerlo! Non si spiegherebbe altrimenti il comportamento dell’indisciplinato automobilista che si ferma per fotografare ed uccidere l’immagine che sta idealizzando nel panorama. Non si spiegherebbero coloro che si soffermano a guardare un tramonto e pretendono anche di immortalarlo (ancora una volta il voler uccidere i momenti) con le videoriprese. E non c’è grossa differenza, almeno a livello concettuale, in chi decide di prendere a martellate il David di Donatello. Anche lì la volontà è quella di uccidere/immortalare. Questo, lo ripeto, perché siamo poeti ed un misto di sofferenza e piacere ci pervade nel momento contemplativo della cose che ci appaiono belle, sublimi o addirittura orripilanti. Forse è per questo che, come dicevo all’inizio, non adoro la poesia. 

Ma è sempre per tal motivo che tendo a voler generare, nell’iperuranio della mia mente, una categoria estrema di gente che si esprime poeticamente, nel senso più vero e non estetico. Intendiamoci, non è che l’estetica non conti. Se così fosse dovremmo giustificare il vandalo. L’estetica è tuttavia il momento finale della concezione ideale e di pensiero. È chiaro dunque che pochi fanno parte del novero di tali veri poeti. 

Pessoa, Borges, Wenders, Ariosto, Platone sono i primi nomi che mi sono venuti in mente quando ho letto per la prima volta “Il Frutto di Babele”, di Roccasalva, Selvaggio e Denaro. Non li sto affatto paragonando ai famosi di cui prima, li sto invece inserendo in maniera del tutto arbitraria (perché affidata al mio opinabile gusto) nello stesso club. È il Mare a far da minimo comun denominatore, per quanto ciò probabilmente non è direttamente voluto dagli autori, ed è anzi ipotizzabile una mia forzatura. Ma mi spiegherò meglio cominciando seriamente a parlare di questo ricco opuscolo, condensato di canti e pensieri sparsi. Nella premessa generale, paternità di tutti e tre gli autori, così si avverte il lettore: “Giochi di menti e anime, regole proprie, norme condivise in un oceano di esistenze, questo caratterizzava il popolo di quella immensa città chiamata Babele”. Non è solo il riferimento figurato all’oceano, quanto il voler rappresentare il marasma dell’ondoso mare, contenitore immenso. Contenitore di cosa? Il riferimento biblico, mi conduce a credere che il mare sia inteso come contenitore di perversioni. Nel vecchio come nel nuovo testamento sono tante le figure che identificano il Male con il Mare. Anzi, ad esser più precisi, il testo biblico parla più di acqua che di mare, allargando il più possibile l’area di disprezzo. I mostri (come il Leviatano) popolavano gli oceani (lo ribadisce ancora Giovanni nell’Apocalisse); il diluvio; e Gesù che cammina sopra di esse e salva chi sta per annegare...etc, etc..
Bisogna andare alle radici: Dio, nella Genesi, raduna le acque per far emergere le terre. Il mare è caos, dunque negativo. Infine, quel solito simpaticone dell’Evangelista, nell’Apocalisse ci vuol rasserenare con la visione della nuova Terra Pacificata: “Vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più.” 

Era gente che al mare preferiva i Monti, e il mio tono non è solo ironico. Pensate a quanto sarebbe stato più divertente se il Discorso della Montagna fosse avvenuto nel contesto di un barbecue in spiaggia, tra schizzi di vino (magari della stessa marca di quello delle famose nozze di Cana, ri chiddu ca nun finiscia mai!) e salsiccia? 

A parte tutto ciò, nelle culture arcaiche, in generale, c’era una visione negativa nei riguardi dei flutti (il mare di Omero non è certo benevolo, così scuro come il vino com'è). Il parallelismo del caos marino con la vicenda ben nota di Babele, è stupefacente. Il non riuscir più a comprendersi, è qui interpretato qual dono divino, graditissimo per giunta. Nel marasma delle onde vi è la genesi di ogni cosa, nella confusione (nella Contraddizione) la Verità. Ecco tutta la malinconia dell’inafferrabile stessa Verità. Mi spiegherò meglio più avanti, prima conviene addentrarci in ciò che Giovanni Roccasalva, per primo, probabilmente intende dire:

È l’accettazione del Male, del Caos, quale condizione sempiterna dell’esistenza umana. L’essere umano è irredimibilmente segnato dalla malattia e dalla follia. Dalla Morte! Per sua stessa ammissione Roccasalva si accoda alle schiere dei romantici, quelli di ogni tempo, come Hoffman, o Edgar Allan Poe, quest’ultimo direi quasi onnipresente quale riferimento nelle sue liriche, spesso piacevolmente in lingua anglosassone: “I cannot sleep, my pain’ so deep…I’ll find ‘em all, so rest in peace my dear one. Eyes Burn and memories too (Burning Memories)”. Ancor più chiara è la deferenza dell’allievo ed il tributo a Poe, in Here comes the crow  (this blackest bird sounds of death…). Antiche reminiscenze da “Gli Elisir Del Diavolo” di Hoffman mi sembrano vicine alla bellissima Tempesta:
Luciferina caduta fra nere lame
Forgiate da gelide fiamme d’apatia;
urla afone echeggiano selvagge
nelle sconfinate valli dell’io
svelando meandri a lungo celati.
Sospinte da venti taglienti
Grevi nubi assediano il cielo;
lenti rovinano castelli di carte
tra fanti ghignanti, dame e regnanti.
D’improvviso tutto tace e tra le macerie
Un timido fiore guarda al pianeta.

E nel finale, quel barlume di luce, che ascende dal nero più scuro, al chiarore appena percettibile, dopo aver attraversato tutta la scala di grigio, è la stessa redenzione di Medardus, che muore finalmente in pace, libero dal peccato mortale che lo ha oppresso per tutta la vita. Cos’è se non una denuncia politica (latu sensu)? I fanti che ghignano (immobili maschere celano il volto, caricature delle umane passioni. Intrecci grotteschi crescono lenti all’ombra corta del canovaccio. Da Atto Primo: Vita), le escort ed i signori della terra, le macerie di una civiltà che si disgrega per l’ennesima volta e aspetta di risorgere dal pensiero minimo più puro. Nel senso di più puro tra le cose naturalmente non pure, ovviamente. Ecco cosa intendo per poesia vera, poesia non fine all’estetismo. Roccasalva è ben calato nella realtà mondana e non vive nell’empireo di un romanticismo ideale. Ecco la contraddizione in cui è contenuta la Verità. 

Negli ordinamenti tardo-medievali europei vi era uno stato di convenzione tale che era possibile limitare e contenere le attività belliche in maniera non troppo dissimile da come accade oggi. Carl Schmitt, filosofo cattolico e vagamente nazzista, parlando di diritto pubblico riteneva che il diritto del popolo si fondasse sull’occupazione territoriale (soprattutto terranea) e dunque derivasse dalla c.d. proprietà. Sto minimizzando (e Schmitt andrebbe contestualizzato meglio e per quel che è possibile in parte recuperato), ma è per cercar di sintetizzare al massimo e render chiaro che le convenzioni citate prima, erano strettamente connesse al territorio. Si capirà così più agevolmente la grande rivoluzione avvenuta dopo la falsa scoperta di un nuovo immenso continente come quello abitato dalle popolazioni pre-colombiane. La problematica non risiedeva ovviamente nel continente americano in se stesso (sarebbe stato semplice mutuare su quelle terre gli stessi codici di comportamento vigenti in Europa). Ciò che sollevava gravi dubbi era la non-consistenza (terranea per l’appunto) di tutto il mare che circondava quei continenti. Come si poteva suddividere il mare? Come poter acquistare la proprietà di un pezzo di oceano? La pirateria, i corsari e tutto il corollario semi-legendario, sono la diretta conseguenza dell’estrema convenzione di non poter convenire nulla! In questo caos privo di regole, nasce il nuovo diritto globale! Tutta ‘sta tiritera per poter ancora una volta stabilire che: è dalla contraddizione, non dalla certezza, che “può” estrapolarsi la Verità. Una cosa può essere più cose contemporaneamente. 

Questo è il mare di Federico Selvaggio: “la magnanimità del mare, che non consente tracce (Melville)”, così introduce la sua premessa, didascalia di una immagine ben precisa e perfetta nel suo attanagliarsi al tema: un Drago che si mangia la coda! L’anello, la circolarità infinità dell’esistenza. E poi, è lui stesso a dichiarare che il mare è punto fisso del suo essere. Il nichilismo di Roccasalva si risolve e sboccia come quel fiore di cui poco fa, adesso bisogna cercare, Cercare il significato! O almeno il significante. Bisogna cercare qualcosa, perché questa c’è, da qualche parte, nascosta, ma c’è. Bisogna cercare senza pensare troppo al perché, o alle conseguenze (il canto del trascorso di 96 Onde). Certo, il dopo c’è già stato, lo ha definito il Fato, dunque non resterebbe che contemplarlo malinconicamente. E questa malinconia fa capolino continuamente nei versi. Ma è controbilanciata da un vigoroso “fanculo” a tutte le remore possibili: Chi mai ha domandato prima di fare? Chi mai ha baciato prima di amare? (Sangue e Nobiltà). L’imperativo è abbandonare la consapevolezza: 
Imprevedibile
Apri gli occhi e ti chiedi:
e se
Comprendere le regole del gioco
non sempre aiuta a giocare.
Lasciarsi andare


La Consapevolezza è il grande nemico dell’uomo: se solo si potesse racchiudere l’anima di un uomo esso non sarebbe più tale.
Cosa resta all’uomo consapevole, o falsamente convinto di esserlo, se non il rimorso: Prestami un giorno grigio, per poter ricordare il sole, il suo calore… quanto male può fare accorgersi del momento.
Si passa poi ad “Echi” di Platonismo ed ombre malinconiche che si rifrangono sul fondo della caverna: Se solo si potesse aver coscienza dei bisogni, non dei loro echi.
Si percuote ancora il tamburo della consapevolezza, in un ritmo privo di tempo e spazio, circolare ed infinito, come quello che dura il momento di un bacio: come se tutto si fermasse, come se tutto andasse veloce. Espandere le sinapsi ad un limite possibile per poi tornare indietro e ricominciare all’infinito.
Federico Selvaggio è alla continua ricerca dell’attimo: la soddisfazione del Mentre fra la fine e l’inizio della fine.
Bisogna perdersi in un deserto blu, lo stesso colore dell’oceano più profondo (si badi bene, che adesso il mare non è più nero, rischiarato dalla luce della ricerca): "immergi le dita, paura, e chiudi gli occhi e non chiedi più e speri che ti circondi, che ti accolga con fare di fato.” È tutta qui la poesia di Selvaggio. Fatta di sensazioni istantanee, percepibili appena al primo intervento tattile, ma capaci di lasciarti un sapore duraturo e variopinto su cui riflettere. Non mi è mai piaciuto spiegare le poesie o cercare di renderle in prosa, dunque non lo farò. È la speranza, la speranza della ricerca che dovrà illuminare il percorso di chi vuole immergersi. La speranza che tutto ciò sia voluto dal Fato, l’unica cosa che sta sopra Dio. Il bisogno di un deserto, di fini e sottili strati di malinconia.
Deserto Blu
Parole, piedi nudi e granelli sottili.
Tocchi il cuore
Le parole.
Non so dirti perché,
non so dirti cosa è.
Chi sono, chi sei.

Quanto è grande una mano
Se quello che contiene
Piange di vita propria!?

Immergi le dita,
paura,
e chiudi gli occhi
e non chiedi più,
e speri che ti circondi,
che ti accolga con fare di fato.

Oh quanto basterebbe
Sapere chiedere di smettere.

Aria, non importa.
Puoi attendere,
assaporare e chiedere di più,
perderti nel blu.
Aria, forse,
perché non indugiare?!
Fine di un passo, inizio
Di un altro.

Oh quanto fa male
Scoprire di non avere sete,
ma bisogno di un deserto,
di fini e sottili strati
di malinconia.

Le certezze appartengono ai deboli.
Conoscere perché siamo.
Una stupida corsa verso il baratro.
Quest’ultima poesia si intitola Vai Piano, forse la più ironica di tutto l’opuscolo. Sicuramente la più divertente e diretta.

Da lì Giovanni Denaro comincia a contare le infinite, ripetitive 96 onde. Le conta una ad una come fossero parole. È Giovanni Denaro, ma allo stesso tempo si annulla in Pessoa, Wittgenstein, Bachtin. Cos’è la parola? Cosa rappresenta? Cosa significa o potrebbe significare? La parola allude allude sempre ad un’altra parola. E così una parola segue l’altra, come le onde del Tago che confluiscono nell’infinito oceano. Il prima, la genesi di Roccasalva, il mentre di Selvaggio e adesso la malinconia dell'irrimediabilmente trascorso. Era stata prefigurata già prima, ma solo adesso è arrivata veramente, nell’ora del crepuscolo, quando la mestizia si fa persino dolce. I temi trattati da Denaro, sono ciclicamente sempre uguali, come dice lui stesso: l’infinito e l’amore! Ma questo è solo un escamotage. I temi sono quelli fondamentali del vivere giornaliero. Persino da bar. Come ho già detto, i tre giovani artisti sono impegnati socio-politicamente e ben calati nella realtà peripatetica (o solo patetica) del quotidiano. Ciò che conta in realtà è il modo in cui sono trattati quei temi. Personalmente ho sempre amato gli autori che parlano sempre del medesimo argomento trattandolo sempre da angoli di visuale diversi (Sciascia su tutti). Perché in fondo diciamo sempre le stesse cose da sempre! Dio stesso è ripetitivo! Denaro è dio, nel suo contesto, e si diverte a nascondersi:
Sogno
…e vorrei una piccola casa vicino al mare,
tutta colorata dello stesso azzurro dell’acqua e del
cielo,
con un giardino verde pieno di tulipani e di rose rosse
e l’edera rampicante a cingere le mura d’intorno.

E vorrei passeggiare sulla spiaggia quando il sol
Nasce,
quando le stelle lasciano posto alla luce del giorno,
quando il freddo mattutino e le prime luci dell’alba
rivelano fortemente la bellezza della vita che nasce.

E vorrei averti qui, e condividere questo mio mondo
Con te,
passeggiare sulla spiaggia umida,
sentire il vento e il sole sulla faccia;
e vorrei leggerti – sdraiati dinanzi al nostro piccolo
camino –
i passi delle mie opere preferite,
e vorrei guardarti negli occhi
ed accarezzarti i capelli
con la stessa adorazione e con lo stesso amore
che prova la mamma per il figlio,
l’amante per la sua donna,
l’uomo per Dio.

Nel minimalismo centrale di questa lirica ravviso il miglior nascondiglio di Dio, le cose semplici! Eppure Dio sempre capace di spiazzare, con un finale inaspettato, come quello della stessa poesia in questione. 

Le atmosfere quasi notturne pervadono i petrarchismi. Leggendo Vorrei essere la notte sembra quasi di aver a che fare con l’ennesimo eteronimo di Pessoa: un Petrarca che riscrive a modo suo Cecco Angiolieri:
Vorrei Essere la Notte
Vorrei essere la notte
Nera come i tuoi capelli e
Ricca di stelle che
Brillanti come i tuoi occhi
Diventino gli occhi miei
Per poterti proteggere e
Benedire,
mia luna celeste.

Vorrei essere l’acqua,
preziosa come il tuo sguardo
e limpida come la tua anima,
unica mia fonte di vita
in un mondo ormai arido e
privo di speranze.

Vorrei essere il sole
Che arde come il cuore
Tuo immenso,
la rose divina custodita nel tuo petto;
universi infiniti non
bastano a contenere
la luce che promana dalle tue mani.

Ed io che non sono nulla
Vorrei essere tutto solo
Per poterti avvicinare,
per poter assaporare
quel profumo nostalgico
che tanto mi manca,
e che mi rende così
perpetuamente,
infinitamente.
Un triste peregrino
Che solingo vaga
Sospirando
Tra i labirinti del tuo cuore.

È Dio che va peregrinando sulla terra, l’eteronimo massimo di ogni essere vivente, l’annullamento completo, eppur sottoposto all’eterno Fato. 
A concludere il cerchio, ricongiungendosi, nella terra ormai pacificata, Denaro suona un
Pianoforte nel deserto
Un pianoforte nel deserto,
una casa in fondo al mare.
Percorsi infiniti
Che ci attraversano l’anima,
pianti di bambini appena nati.

Ricordi in bianco e nero
Di giornate travisate,
inganni che durano
quanto il tempo.

I pensieri sono soli,
e noi siamo solo ciò che pensiamo:
una solitudine immensa,
nessuno ci ha mai conosciuto veramente,
nessuno mai ci conoscerà.

È il testo finale, quello che mette d’accordo tutti, come dicevo prima, nella terra ormai pacificata e post-apocalittica. Solo che il mare c’è ancora (memoria eterna ed infinita), e non poteva essere altrimenti, perché noi vogliamo il mare!

Gaetano Celestre

mercoledì 28 settembre 2011

Avviso

Carissimi lettori, vi rendo partecipi della nuova collaborazione da me intrapresa con i bravissimi ragazzi del blog "Post Scriptum" (http://blog.studenti.it/speakercorner/)
Sono molto orgoglioso di partecipare a questo nuovo progetto. Vi invito a "fare un giro" nei pressi del sito in questione. Non vi annoio con la descrizione delle materie e dei temi trattati poichè vi renderete conto da soli della vastita di argomenti (dall'attualità allo sport, passando per la musica e ancora altro). Insomma, buona lettura e a presto.
Gaetano

venerdì 18 marzo 2011

Domenica 20 Marzo, ore 18.00 Teatro Garibaldi
Il Consiglio d'Egitto