venerdì 24 dicembre 2010

Presentazione pugliese di "Bagni Achei"



Mercoledì 29 dicembre ore 18.30

Salotto Letterario Sen. G.Degennaro , L.go Teatro 7, Bitonto (Ba)

Cari amici, dopo le presentazioni siciliane, siete tutti invitati a venirmi a trovare e partecipare a questa discussione "pugliese" del mio romanzo. L'evento è organizzato con la prestigiosa collaborazione di Gianluca Rossiello della "Libreria del Teatro" di Bitonto. A presto!

mercoledì 17 novembre 2010

Schiavi del semaforo

Castore e Polluce fuggivano sulla loro fiat 127 decappottabile, sfrecciando veloci come due antilopi che hanno appena rubato una Jaguar. Era l’ora di punta e quasi tutte le campanelle delle scuole del paese concedevano l’uscita ai propri reclusi. Immaginatevi il movimento: motorini che ti passavano a sinistra, a destra, sotto le gambe; macchine che sbucavano dall’angolo; tutti di fretta, tutti sfumazzanti dalle marmitte e rumorosi come zanzare amplificate. Non era mica facile fare quello che stavano facendo i due fratelli sulla loro 127: riuscivano ad insinuarsi nelle strettoie più impensabili e alla fine imboccavano la provinciale per primi, evitando di rimanere intasati all’incrocio-imbuto, in fondo a quella strada – cosa che fermò tutti gli altri concorrenti.

«Bravo fratello, siamo primi al semaforo!» - disse Polluce all’altro.

«Giaaaaà!!!».

Peccato che in quel momento scattò il rosso. La prima cosa strana fu che gli Unni con le ruote gommate non giunsero immediatamente alle loro spalle.

«Beh saranno ancora bloccati, incapaci di dare precedenze e di favorire il defluire del traffico.».

«Giaaaaà.» - rispose sempre Castore.

Il semaforo era ancora rosso.

«Metto un po’ di musica…» - disse Polluce.

«Giaaaaaà!» - fece l’altro.

Misero i Phish, un bel live della jam band.

Intanto il semaforo continuava a rosseggiare.

«Ehi, ma quando scatta stu semaforo? Speriamo che non si sia incantato!».

«Giaaaaaaà!!!» - disse Castore.

I Phish continuavano a suonare, Trey Anastasio aveva appena cominciato un lunghissimo assolo, e il semaforo restava fisso sul rosso.

«Ehi fratello – esclamò Polluce verso l’altro – non ti è sembrato che il semaforo, per pochi attimi, abbia tentennato sul colore? Non te ne sei accorto anche tu? Sembrava volesse scattare sul fucsia, no? No, non credi? Beh, magari diventa blu, come nella Profezia del divino Experienced, che dici? Ok, ok, forse è solo il caldo che mi sta dando alla testa. Lo aveva detto mamma, di mettermi il cappellino e che non bastavano i capelli lunghi.».

«Giaaaaaaà!!!» - assentì Castore, che aveva anch’esso i capelli lunghi.

Passarono almeno due giorni in silenzio, da quel momento.

Il semaforo sempre rosso e Trey Anastasio, col piede sul wha-wha, non accennava a smettere di sudare sulle sei corde. Nessuna macchina dietro di loro, nessuna di fronte. Neanche un’anima viva lì intorno, solo la strada ed il cemento.

Poi Polluce chiese al fratello:

«E se il semaforo non scattasse più?».

Castore, lentamente, girò la testa verso l’interrogatore, mantenendo sempre le mani sul volante. Abbassò i suoi wayfarer ed alzò il sopracciglio destro… tutti riescono ad alzare il sinistro, ma è alzando il destro che si vede chi ce la sa e ce la può veramente. Restò indeciso sul rispondere per un po’ e poi:

«Giaaaaaaaà!!!».


Caro lettore, il brevissimo raccontino che hai appena finito di leggere, ha una sua spiegazione (probabilmente! Certo, bisognerebbe informarsi al riguardo). Va bene, magari non si tratta veramente di una spiegazione, in ogni caso, necessita della lettura di un ulteriore scritto che apparirà in questi giorni su Nove (la rivista a distribuzione gratuita, che potete trovare in giro per Scicli. Per chi non è di Scicli, mi contatti pure e riceverà privatamente lo speculare scritto). Ma non devo avvisare di questo solamente. Caro lettore, dal prossimo numero di Nove (a scanso di equivoci, il numero successivo a questo di cui dicevo prima e dove è contenuto lo “scritto speculare”), inizierò a raccontarti una storia rock a puntate. Cioè la storia di una rock band di paese (che, come ho scritto già sull’avviso di Nove, non è la storia della rock band cui io ho modestamente partecipato negli anni passati. Ma, non riferendosi a nessuna persona realmente esistente, vuole essere il modello tipico di una rock band di paese, o almeno quello che riesco ad immaginare io. Siamo nel territorio dell’opinabile democratico: così la vedo ioma potrei sbagliarmi). Il titolo di questo racconto è “It’s Only Rock ‘n’ Roll…and I like It” (ricorda qualcosa agli appassionati del genere?).

Dunque, concludendo, vi invito tutti a leggere le puntate di questa soap opera in salsa rock, ovviamente su Nove. Per chi non è di Scicli, mi contatti su Facebook e troveremo una soluzione. Fatemi sapere se vi piace. A presto.

martedì 28 settembre 2010

Tavolini

Sotto gli ultimi raggi del sole rossiccio, quello che tramonta e segna la dorata strada marina per la felicità eterna, qualcuno resta ancora stirato sulla sabbia a godersi il nulla mentale più beato e simile al nirvana. Altro che quel complessato di Schopenhauer! Giasone e Caio invece, come altri del resto, decidono di muovere ai tavolini del vicino bar, dinanzi al mare. In filodiffusione Jamiroquai: seven days in sunny June. Sono entrambi ancora grondanti di acqua salata e soddisfatti. Tutti e due a torso nudo, senza ombra di asciugamano, discutono della temperatura dell’acqua, perfetta! E anche di altre cose, tutte amene e stupide, da un punto di vista meno attento. Cose serie, molto serie, se affrontate col giusto appiglio alla realtà:
“Mio Dio, che estate favolosa!”.
“Ma se ha fatto quasi sempre vento…”.
“Sì, e se è per questo non è stata neanche granché calda, eppure…”.
“Sarà a causa del riscaldamento globale!”.
“Eh, boh?!? Riscaldamento vuol dire che dovrebbe esserci caldo, no? Eppure, dicevo…”.
“Allora saranno gli sconvolgimenti climatici, in generale. Magari i Maya hanno anche previsto…”.
“Sì, sì, come dici tu, ma non è questo il punto. L’estate è sempre favolosa, in ogni caso. E poi, ad ogni modo, qualche bagno ce lo siamo fatto, no?”.
“Già, grande estate, dovrebbe durare tutto l’anno.”.
“Eh, e anche più!”.
“Chiama il tizio dei tavoli, facciamoci portare un altro paio di birre!”.
“Da 66?”.
“No dai, è pane liquido, mi sta venendo su una panza da far invidia a…”.
“A chi?”
“Boh, a qualcuno davvero grassone!”.
E scoppiarono in una fragorosa risata, giusto un tantino da ebeti consapevoli, ben nascosti dietro i più sgargianti Rayban da sole che si erano mai visti negli ultimi cinque minuti su quello spiazzale.
Tutto colorato d’arancio, ragazze in bikini che passano, avanti e indietro, anche loro con gli occhiali da sole, sembrano sfilare. Anzi, sembra un video dei Jamiroquai. Giasone e Caio sorridono ancora, sornioni.
“Dico, parliamo di cose serie, un attimo!”.
“Ma solo un attimo però…”.
“Sì, sì, non temere. Mi chiedo se stasera è meglio mettere gli occhiali rossi o quelli azzurri.”.
“Rossi, rossi…siamo in estate, fratello!”.
“Grande estate, calda.”.
“Già, calda! Dovrebbe durare tutto l’anno!”.
“E anche più, credimi!”.
“Beh, magari impegnandosi!”
“Chi si dovrebbe impegnare?”
“Noi!”
“Per far cosa?”
“Per farla durare di più!”
“Ah già, beh, fammici pensare, ti farò sapere.”
“Ehi, amico, posso chiederti un parere?
“Dimmi, basta che non debba pensarci troppo!”
“No, almeno spero. Secondo te, questi tizi seduti al tavolo accanto, fanno il nostro stesso genere di discussione!”
“Fammi vedere…hmhmhm”
“Allora?”
“Sì, sì, certo! Guarda come sono vestiti: quello di destra con la camicia gialla in stile hawaiano e i Persol da sole, bellissimi. E l’altro coi capelli così scompigliati che sa proprio di estate goduta fino in fondo.”
“Già, e poi guardali, ad ogni proposizione brindano sorridenti. Tu che sei vicino, prova a vedere se senti qualcosa di ciò che si dicono…”
“Ok, spe…”

Così Giasone reclina la sedia sui due piedi posteriori, dondolandosi con finta sbadataggine, stiracchiando la schiena e ascolta:

“Hai visto ieri come ho sgozzato quella tizia?”
“Sì bello, gran mossa quella di mozzargli prima le mani a colpi di elenco telefonico.”
“Già, ma se devo essere sincero sei stato tu ad ispirarmi l’altro giorno.”
“…cioè?”
“Quando hai comprato apposta tutta la discografia in vinile di ggiggidalessio per infilarla nella gola di quel ragazzo che hai sequestrato. Sta ancora sopravvivendo a tutte le sevizie?”
“Sì, ma i dischi non glieli ho infilati nella gola…”
“Ah! Beh, devi ammettere che in quell’ammasso di carne putrefatta, ormai è difficile distinguere qualcosa…lo hai nutrito per mesi a base di carne di maiale sofisticata.”
“Già, brindiamo!”
“Sì, brindiamo…ai nostri giochini! È bello sapere che è anche grazie al nostro disinteresse che nel terzo mondo i bambini muoiono di fame. Ehi amico, ma hai sentito i tizi accanto a noi di quali bestialità discutevano?”
“Come no, da inorridire, roba da denunciarli, che schifo! Indegni di appartenere alla razza umana”

Giasone e Caio, nel frattempo, si allontanavano, con l'andatura a ritmo di musica, sempre Jamiroquai.

sabato 17 aprile 2010

Tutti gli interventi svolti durante la presentazione di "Bagni Achei". Ragusa 16 aprile 2010. Presso il Centro Studi Feliciano Rossitto. Parte 1

Ho pensato di raccogliere in due post tutti gli interventi svolti durante la presentazione di "Bagni Achei", avvenuta a Ragusa, venerdi 16 Aprile 2010, presso la sala conferenze del Centro Studi Feliciano Rossitto. L'evento è stato promosso unitamente dall'associazione "La Meglio Gioventù" ed il "Centro Studi Feliciano Rossitto". Per quanto riguarda il mio intervento, che trascrivo subito qui di seguito, ho deciso di postare (come si suol dire nel gergo dei blog), la versione integrale di ciò che avrei dovuto dire e, ringraziando i superni divini, poi alla fine ho deciso di evitare. Mi riferisco al fatto che essendo eufemisticamente un poco lunghetto, come intervento, poi ben difficilmente avrei potuto fare a meno degli sguardi feroci del paziente pubblico. Come dicevo, fortunatamente ho desistito. Ringrazio ancora una volta tutti coloro che erano presenti, gli organizzatori (le due associazioni) e i relatori tutti (Giuseppe Nativo, Giovanni Denaro e Giorgio Sparacino che oltre a nobilitare varie parti del mio libro con la sua eccezionale interpretazione, ha anche letto lo scritto dell'amico Guglielmo Emmolo)
Buona Lettura.

Iachino: l'ira come aspirazione repressa e latente (pensieri integrali per una presentazione di un libro). di Gaetano Celestre

Molto spesso mi si chiede il motivo del titolo “Bagni Achei” e altrettanto spesso ho trovato grosse difficoltà nello spiegarlo. La difficoltà sta nel non poter delimitare una sensazione dai contorni sfumati, in poche e concise parole. Proverò in qualche modo a spiegarne il senso. Non dovrebbe mai spiegarsi il senso di ciò che è frutto dell’intelletto? Ogni persona che osserva un’opera di artigianato (in questa eccezione parlo di arte) ne dà la propria interpretazione, sempre giusta eppur opinabile. Non vedo perché non possa anche l’artigiano stesso dare una interpretazione di ciò che è scaturito dalle sue mani quanto dal proprio capo, senza per questo inorgoglirsi troppo nell’idea che possa essere la visione più esatta. E veniamo al libro, che parla di bisogni, in tutti i sensi. Mi si conceda la poco elegante immagine, ma essendo che almeno due delle scene-madre di Bagni Achei avvengono in bagno, parlo anche di bisogni materialmente fisiologici. Comunque tra i bisogni principali di Gioacchino, c’è quello di farsi altro rimanendo se stesso, per non patire più le pene inflittegli dai suoi insulsi superiori. Stiamo parlando della stessa esigenza che ebbe Achille quando pervaso dall’ira funesta addusse quegli infiniti lutti. Dunque Achille si arrabbia. Sbaglia?
Ci mancherebbe altro. Immagino questo guerriero fortissimo ed attesissimo, e però già innervosito sin dalla partenza in Aulide. Lì infatti, tramanda Euripide, le navi di Agamennone sostavano forzatamente a causa di venti non favorevoli. Calcante l’indovino, gran geniaccio, si pronuncia dicendo che i venti mai saranno favorevoli senza il sacrificio di Ifigenia, figlia del Re delle genti Achee Agamennone. Così, consigliati da quell’imbroglione di Ulisse, fanno venire in Aulide la mischinedda Ifigenia, con la scusa che sarebbe stata data in sposa ad Achille. Le cose poi andarono diversamente, come si sa. Dunque ecco il primo elemento: Achille è stato messo in mezzo ad una storia che non gli riguardava senza che ne sapesse nulla. È legittimo che abbia cominciato ad innervosirsi? Quante volte accade che si facciano nomi di gente ignara per invogliare a far cose che mai si sarebbero fatte altrimenti. Oppure quante volte accade che ci si ritrova malvisti da qualcuno perché un terzo, dicendo magari cose non del tutto vere, ha parlato di noi senza che ne sapessimo nulla. Diciamo che Achille, giunti sulle rive dello Scamandro, già non vedeva di buon occhio Ulisse né tanto meno Agamennone, il suo capo. Come se non bastasse, Agamennone gli ruba Briseide, che nei primi scontri era stata catturata, quale preda di guerra, dallo stesso Achille. E gli si può dare torto ad Achille se decide in quel momento di non combattere più? Che se la vedano loro, in fondo quella guerra neanche gli interessava. Perché in effetti Elena c’entrava ben poco coi motivi di quella guerra. Come sempre accade, le ragioni stavano molto più negli interessi economici dei cosiddetti BIG, coloro che comandano e dirigono. L’unica cosa che avrebbe smosso l’eroe Acheo sarebbe stata l’uccisione del suo “amichetto” Patroclo. La fatidica goccia che fa traboccare il vaso. A quel punto Achille non vede in faccia più nessuno, che avesse di fronte il fortissimo Ettore o il raccomandato Enea (ricordiamolo che era un raccomandato e mai si sarebbe salvato, nei vari scontri con gli eroi achei, senza l’intervento della madre divina). Qualcuno potrebbe eccepire che è stato l’amore a smuovere l’ira e senza dubbio potrebbe essere una interpretazione anche valida. Sennonché io credo che le ragioni vadano cercate nel reiterarsi di situazioni sia sfortunate e casuali quanto di altre ben volute da gente che “poco suda” quale potrebbe esser stato Agamennone, Re degli eserciti. Un po’ come Gioacchino nella sua quotidiana normalità fatta di casualità quanto di vessazioni da parte di gente che a suo parere vale meno di lui. Mi riferisco ovviamente al suo preside (altro esempio di chi “non suda”), al bulletto Polinesso, ai tizi della TV, ai politici, la mafia e tutto il resto. Sono tanti tasselli di un mosaico che si è costretti a comporre nella vita e tante volte verrebbe la voglia di disfare, soprattutto quando, come nei puzzle, salta fuori quel pezzo che non sta in nessun posto. Insomma Achille impazzisce o si finge pazzo – come diciamo da queste parti - per risolvere quella situazione. Oreste invece, altro personaggio psicanalizzabile, si distingue da Achille in quanto viene colpito da pazzia subito dopo il gesto - l’uccisione della madre - e non preventivamente. Per questo la storia della letteratura da sempre, forse ingiustamente, lo condanna. C’è da dire che non ha saputo ben valutare i tempi. Diametralmente all’opposto del Chisciotte di Cervantes, che si direbbe impazzito quasi programmaticamente, così da poter uscire dalla noiosa vita gretta del ceto medio-borghese.
In poche parole siamo dinanzi alla “pazzia risolutrice”. E trattando di tale forma di follia, come non parlare del suo più grande teorico: Ludovico Ariosto, cui tanto deve Bagni Achei, sin dal nome dei due personaggi principali. Francesco De Sanctis, nella sua Storia della Letteratura Italiana, trattando dell’Ariosto e del Furioso, ne parla così: “Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno, e vi si seppellì per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita ad emendarlo. Si racconta che andasse sino a Modena in pianelle, e non se ne accorse che a metà della via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa c’era dunque nella sua testa? C’era l’Orlando Furioso. Niuna opera fu concepita né lavorata con più serietà. E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale o patriottico, di cui non era più alcun vestigio nell’arte, ma il puro sentimento dell’arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi.”

Costui era un sacrificato alla vita lavorativa, un uomo buono, come c’è tramandato, che mai ebbe un gesto di ribellione ed evidentemente aveva bisogno di sfogarsi in qualche altro modo:

129
Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro isculse l'epigramma.
Veder l'ingiuria sua scritta nel monte
l'accese sì, ch'in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.

130
Tagliò lo scritto e 'l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe' le minute schegge.
Infelice quell'antro, ed ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restar quel dì, ch'ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;

131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell'onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all'ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.

Salto….

134
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe' ben de le sue prove eccelse,
ch'un alto pino al primo crollo svelse:

135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe' il simil di querce e d'olmi vecchi,
di faggi e d'orni e d'illici e d'abeti.
Quel ch'un ucellator che s'apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l'urtiche,
facea de cerri e d'altre piante antiche.

Questi sono i versi del canto ventitreesimo dove Orlando finalmente impazzisce e chiarifica riguardo il titolo dell’opera che lo vede quasi protagonista. Maestro è l’Ariosto nel creare l’attesa, tutti aspettiamo che il paladino diventi furioso. Così come accade con Achille, ove l’ira funesta ci è anticipata sin dall’inizio. Ecco che la follia, genericamente, superficialmente considerata quale cosa negativa e in alcuni ambiti persino peccaminosa (Ira), diviene motivo di allegrezza e di completamento. Qualche attimo prima di tali versi, Orlando si accorge che tutto l’ambiente circostante è ornato da fregi riguardanti l’amore di Medoro e Angelica. Chiaramente si tratta di quelle incisioni da innamorati da strapazzo che da sempre sono di moda sulla terra. Medoro ama Angelica è un po’ come Peppy ama Vany. Una volta si usava incidere la corteccia, ora si usano i più sbrigativi spray o i lucchetti. Orlando cerca di calmarsi pensando che magari si tratta di qualche altra Angelica ma è in agguato l’inopportuno disturbatore inconsapevole. E al riguardo mi sovviene in mente un fatto accaduto al sommo Coleridge e di cui lui stesso parla. In pratica aveva sognato qualcosa di “inarrivabile”, probabilmente la “Verità” o non so che altra cosa che avrebbe chiarito per sempre all’umanità il significato più intimo di cose tipo la vita o similari. Subito si era alzato dal letto per trasmettere il tutto su carta, quando qualcuno bussò alla sua porta. Qualcuno del quale successivamente alla visita non ricordava più granché, oltre il fatto che gli era stato molesto e che probabilmente non lo conosceva. Si rimise a scrivere e a quel punto si rese conto di non ricordare più nulla del sogno. Ecco che allora il disturbatore assume anche la fisionomia divina, altro che inconsapevolezza. Ma rimanendo sulla terra, i disturbatori sono quei personaggi che nella vita reale esistono veramente, fastidiosissimi eppure divertentissimi per chi osserva da fuori. In pratica l’eroe con la durlindana incontra colui che gli racconta tutto - e nei minimi particolari- riguardo i due innamoratini. Per Orlando c’è una escalation di nervosismo in atto. E più cerca di trovare mentalmente delle giustificazioni, più l’altro gliele demolisce. Orlando dunque, almeno ad una lettura superficiale, impazzisce d’amore non corrisposto. Ma come ci lascia intuire Calvino, nella sua interpretazione, più nel profondo bisogna scavare. Come dicevo prima, l’Ariosto, da buon represso, avrà trasmesso i suoi fastidi al personaggio di fantasia. Ma non solo: Orlando, eroe fortissimo ed imbattibile, da almeno un poema e mezzo è in balia di una donna che se lo rigira come vuole. L’operazione del grande autore è quella di ridare vita ad un personaggio ormai ridicolo. Orlando riacquista dignità ed umanità. Se Iachino incontra la sua Angelica, che qui prende nome di Dike, è solo apparenza che questo possa significare lieto fine. Dike, sveliamo l’arcano, potrebbe essere la famosa figlia di Temi e di Zeus che ritorna sulla terra. Infatti il mito racconta che essa, in quanto Dea della Giustizia, ad un certo punto, stanca degli errori umani, se ne sia salita in cielo. Quindi la Giustizia concede una seconda opportunità a Iachino. Una opportunità che può essere più o meno recepita da quest’ultimo. Poteva essere la ricerca di una figura beatifica alla Beatrice, e invece ne viene fuori che Iachino se ne interessa ma solo fino ad un certo punto, quanto può interessare ad un essere umano: non tantissimo, neanche poco. E se questa giustizia anch’essa si umanizza e per ovvi motivi comincia a zoppicare, è comprensibile che neanche l’amore possa bastare per la sua elezione a motivo di vita. Allora c’è uno stare nella mediocrità, nella medietà. La stessa condizione cui giunge finalmente Orlando, per opera della sua pazzia e del genio di Ludovico Ariosto.
Gioacchino aspira alla furia - e ne ha ben ragione - la insegue, la sfiora eppure, forse anche a causa delle maledette convenzioni sociali, mai la raggiunge. Vede impazzire tutto quello che lo circonda, per converso. Si pensi alle visioni mistico-mitologiche ed a tutti gli strani incontri lungo il corso della sua Odissea. Poi ci sarebbe da riflettere su quanto sano possa essere il realissimo mondo del petrolchimico di Gela o degli stabilimenti di Priolo. È insano, nel modo di vedere comune, incontrare e dialogare con la Glaucopide Atena, o scherzare insieme a Cola pesce ma, sempre per quel modo di vedere comune, è accettabile ed umano sottostare alle storture di una speculazione edilizia che diviene distruzione dei luoghi amati. Persino giusto è avallare, in nome di non so quale irrinunciabile attesa di progresso, la costruzione di centrali nucleari e altre dissennatezze similari. Questi sono solo alcuni esempi, si potrebbe continuare quasi all’infinito. Allora la differenza tra i mostri che ad un certo punto vede Iachino e quelli che sono sotto i nostri occhi ogni giorno, qual è? La sola differenza sta nel fatto che questi ultimi sono sicuramente più mostruosi, malevoli anche nella loro inconsapevolezza, cattivi.
Forse, in chiave psicologica, qualcuno potrebbe dire che tali visioni del signor Gioacchino, sono il riflesso di un bisogno di giustificazione ed identificazione nei Divini Dei dell’Olimpo, per le cose che non riesce a giustificare sulla terra. Ma mi permetto, in quanto autore, di dissentire almeno parzialmente da questa posizione. Se Iachino vede gli Dei e ascolta gli alberi parlare, pur non riuscendo a comprenderli, saranno anche fatti i suoi. Non diamo a tutto una chiave psicologica, diviene sin troppo giustificante tacciare qualcuno di alienazione. Si assuma ognuno le proprie responsabilità. Iachino, in queste pagine, incontra realmente tali personaggi mitologici perché riesce ad entrare in una dimensione ulteriore del proprio io, quanto dell’interfaccia che lo circonda (mondo). Un livello di interrelazioni superiore a quello comune. Ciò avviene non perché sia più intelligente o più fortunato, avviene per fictio letteraria e per mia volontà cosciente. Mi spiego meglio: è come se osservando un pilastro in calcestruzzo, Iachino, dopo essersi accorto (primo livello dell’interfaccia) che è costituito da molecole, si rende conto della sostanziale univocità ed esistenza di ognuno degli atomi e scopre che ognun di questi ha un proprio nome e delle proprie esistenziali capacità. Ovviamente c’è dell’altro, come ad esempio il significato ultimo di queste cose, ma si sta parlando di ulteriori livelli di questa stessa medesima interfaccia, cui il mio amico non arriva anche per motivi strettamente legati alle conoscenze del suo autore. Preciso che l’autore sino ad oggi non ha mai avuto incontri mitologici se non con certi professori della facoltà di Giurisprudenza in Catania. Se Iachino va oltre l’autore stesso è solo grazie alla potenza della veridicità letteraria.
Questa capacità permette al soggetto in questione di riappropriarsi, almeno in certi frangenti, della propria soggettività divenendo Iachino, da Gioacchino che era. Iachino, nel suo vagare all’interno delle pagine, ricerca il suo senno (come Astolfo cerca quella di Orlando per conto di altri), senza averlo in realtà probabilmente perso. La cosa più grave, il suo peccato più grave è quello d’orgoglio, quando crede di dover cercare un senno al mondo. Il nostro mondo, sempre quello delle mafie, della politica corrotta e delle cose che non vanno, quello di cui parlavo poco fa; accanto a quello delle cose che invece ci appaiono piacevoli ed entro un certo limite giuste. Quando capirà che il mondo, lui, sono la stessa cosa; che non è mai così netta come crediamo la distinzione tra il bene ed il male, si sarà appunto riappropriato di sé, con la furia ancora e sempre latente.
Questa è l’Odissea di Iachino, nel mio modestissimo tentativo di integrare i due grandi classici della letteratura mondiale. In effetti, anche Odisseo, nel finale pressoché incompiuto dell’opera di cui è protagonista, fa operare la sua furia, quando con il suo arco uccide i proci. E per certi versi capisco il lettore che nel finale si attende Iachino finalmente fuor di gangheri. L’unica concessione che gli fa, è il non accettare la proposta di divenire precettore dei figli del proprio grande nemico, eterno vincitore. Ma rifiuta senza drammi, senza essere plateale. Niente arco né durlindana, gli basta voltare le spalle – e non c’è in alcun modo un sentirsi superiore in questo gesto. Iachino non è neanche uno sconfitto, in fin dei conti. Iachino è uno come tanti, che nella vita, alla fine pareggia. Il finale coi fuochi d’artificio non è umano, non è reale. D'altronde l’Orlando Furioso non si chiude anch’esso senza strepiti, con il matrimonio di Ruggiero e Bradamante, che daranno vita alla stirpe estense? In poche parole croce e delizia di Ludovico Ariosto, i suoi “datori di lavoro”, i suoi detrattori in campo letterario. Si pensi al cardinale Ippolito D’Este che seppur protettore del grande autore, sempre cercò di dissuaderlo dallo scrivere per impegnarsi nell’edificante attività lavorativa di amministratore. Addirittura definendo i suoi scritti delle mere “corbellerie”.
Insomma né vincitori, né vinti, come sempre accade nella realtà umana. Il gesto folle, esagerato, di sfogo, è simpatico, lo ripeto. Quando qualcuno, seriamente provato, si sfoga e fa saltare tutto in aria non può che ispirare simpatia. Ma nel mondo reale quanti di questi che lo fanno, conseguono poi il risultato conseguito dagli eroi letterari? E Iachino poteva forse aspirare ad un finale da eroe? Quanti di noi, qui sulla terra, possiamo aspirare all’eroismo? Ecco perché dinanzi alla scelta se fare o meno una pazzia, da esagitato scalmanato, molti di noi soprassiedono e si contentano di sfogarsi poi in altri campi: in palestra, sul campetto di calcio, sul foglio, etc, etc. Il pericolo sociale è quello che molti decidono di sfogarsi sul malcapitato di turno che non c’entrava niente – e questo è poco simpatico- ma tale discorso esula dal contesto di cui stiamo discutendo o se comunque possa in qualche modo rientrarvi lo fa incidentalmente al fatto che la colonna sonora di questo racconto è il jazz. Musica spigolosa eppur circolare, senza inizio ne fine, il cui personaggio di spicco è stato ed è, senza ombra di dubbio, Miles Davis. Uno degli Dei del gesto inconsulto, teorizzatore del fastidio all’interno del suo gruppo. Ricordo di aver letto da qualche parte che poco prima di un concerto, negli anni ’70, gli si era avvicinato per parlargli Keith Jarrett, all’epoca pianista della sua band - tra l’altro pianista classico, costretto dal geniaccio malefico a suonare un odiatissimo organo elettrico. Gli si rivolgeva per chiedergli cortesemente di intercedere presso il sassofonista, mi pare fosse Gary Bartz, perché non gli suonasse più sopra i suoi accordi. Subito Miles si recò dal sassofonista e con estrema, disarmante, gentilezza, gli disse che a Keith piacevano parecchio le cose che faceva mentre lui suonava i suoi accordi. Jarrett, d’altro canto, aveva visto Davis parlare con Bartz per cui si era convinto che tutto fosse stato risolto e chiarito. Immagino la sorpresa di Jarrett quando al primo suo assolo, Bartz aveva preso a suonare sugli accordi del piano con rinnovato vigore, come se niente gli fosse stato raccomandato. Si generò una scena inenarrabile, dove Jarrett guardava malissimo Bartz che a suo parere lo stava sfidando, Bartz non capiva il motivo di quegli sguardi feroci e credendo dovesse suonare ancora di più su quei benedetti accordi, non esitava ad esagerare. La verità è che quei concerti sono oggi ritenuti dei capolavori della musica. L’intento di Miles era quello di creare lo scontro all’interno del gruppo perché non si adagiasse su posizioni comode. Ma Miles era anche maestro nel prendersela col primo che gli capitava, senza alcun motivo apparente se non il suo senso di fastidio per altre cose non troppo inerenti. Vai ad entrare nella psiche umana... Quante volte una persona ci fa antipatia semplicemente perché ci ricorda qualcosa di spiacevole. La persona più affabile, gentile e divertente del mondo, potrà mai suscitare buoni sentimenti se ha gli stessi tratti facciali di Adolf Hitler o, in misura minore, di non so quale politico del nord penisola (senza voler per questo tacciare di simpatia i politici del sud, isole comprese)? Ecco, adesso siamo fuori-tema. Concludendo: Iachino nello sforzo di ricerca continua cui prefigge la propria esistenza, anche per tenersi impegnato e non fare spropositi, magari non si capirà mai del tutto, ma di sicuro ha compreso queste cose basilari: la sua furia, pericolosissima, latente quanto vana ed il bisogno di distrarsi - come faceva l’Ariosto, come probabilmente anche Omero, come da sempre fa l’umanità. Dunque lunghe passeggiate, interminabili bagni a mare, nella convinzione tutta erasmiana che, citando il famoso Elogio, così consiglia:

“Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Infuse nell'uomo più passione che ragione perché fosse tutto meno triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe. Se solo fossero più fatui, allegri e dissennati godrebbero felici di un'eterna giovinezza. La vita umana non è altro che un gioco della Follia.”


Gaetano Celestre

Tutti gli interventi svolti durante la presentazione di "Bagni Achei". Ragusa 16 aprile 2010. Presso il Centro Studi Feliciano Rossitto. Parte 2


Qui di seguito riporto tutti gli altri interventi svolti durante la presentazione:

“Bagni Achei” un libro di Gaetano Celestre
A ritroso sulla rotta dei migranti,
di Giuseppe Nativo

La lettura di un libro (che consiste nello sfogliare e toccare le pagine; sentire l’odore dell’inchiostro) è sicuramente un’esperienza che in ognuno suscita sensazioni, considerazioni, fantasie e immagini diverse. Presentare un libro di narrativa significa anche compenetrarsi nella trama e cercare di scavare nel significato che l’autore vuole dare alla sua creazione letteraria. Tutto ciò significa non solo ricercare le “impronte” dell’autore, ma considerare anche il contesto storico e culturale in cui nasce l’opera letteraria. Parlare degli “altri” - che in fondo è il lavoro dell’autore - è anche un modo per rivelare qualcosa di sé.
E in questo non si è sottratto neanche Gaetano Celestre, di cui stasera ci accingiamo a presentare il libro.
Giovane studente universitario – gli piace dire di sé che studia giurisprudenza “a tempo indeterminato” – è appassionato di Jazz, Rock e blues ma anche di pittura. Gestisce un blog su rete internet da cui cerca di pubblicizzare ulteriormente ciò che fa. Oltre a queste attività coltiva l’amore per la scrittura nella sua assolata Scicli, “piccolo grande paese” della provincia di Ragusa, dove “orgogliosamente” vive, dove la musicalità latina e grazia araba si miscelano tra l’altero colle di S. Matteo e le spumeggianti acque di un mediterraneo senza tempo, e dove riecheggiano ancora urla saracene tra le rocciose torri un tempo dominanti le vallate di S. M. la Nova e S. Bartolomeo.
E’ proprio in questo scorcio di Sicilia, “…tra una pennellata di mare…” e “muri a secco a tinchitè”, che si dipana l’intreccio narrativo proposto col suo primo romanzo “Bagni Achei” (MJM editore, Milano 2009, pp. 136). Titolo enigmatico per alcuni versi, che resta inspiegabile sino alla fine del racconto, ma che lascia aperte non poche riflessioni su attuali e cocenti problematiche della società.

Nel volume di Gaetano Celestre intravedo tre livelli di lettura: uno socio-antropologico, l’altro etico e, non ultimo, narrativo. Tre livelli che si integrano nell’unità di una narrazione abbastanza efficace. Nel primo ambito emerge l’immagine di una “sicilianità” posta tra realtà e metafora (fortemente “contaminata” dalle conoscenze culturali e dal punto di vista dell’autore), nel secondo la coscienza critica dello scrittore che coglie i problemi profondi della società del nostro tempo (mi riferisco alle odierne grandi tematiche quali “politica e cultura” e “cultura e potere”, in particolare il nodo cruciale “scuola e cultura”), nel terzo, infine, affiora la tecnica letteraria dell’autore (con la quale attraverso un linguaggio ironico, talvolta graffiante, mette a nudo i paradossi del nostro tempo). Tre livelli, dunque, che sono fortemente presenti nel testo e che si compenetrano a vicenda.

La descrizione narrativa dell’autore è capace di rievocare con precisione la terra in cui vive, gli odori, i colori in un mirabile assemblaggio che può essere “gustato” come un dipinto.

Il pretesto narrativo è dato dalle vicende occorse a Gioacchino Ariodante - Iachino per gli amici - docente di storia e filosofia ed accanito “signorino” trentenne con Dna sciclitano, la cui vita, pur scorrendo “noiosa come quella di un’orata da coltivazione”, è percorsa da un galoppante decadimento depressivo a seguito di continue vessazioni subite da Santino Polinesso, un suo allievo, figlio di un noto e potente politico locale cui tutti devono qualcosa. “Elemento particolare”, questo suo studente, le cui ingenue e “giovanili intemperanze”, come li definisce la psicologa dell’istituto, lo costringono a picchiare continuamente “tutti i suoi compagni di classe e l’intero corpo insegnanti”. Il professore Ariodante è un docente che cerca di fare il suo dovere, ma trova un muro di gomma nel corpo insegnanti totalmente asservito al potere politico. Infatti, dal preside della scuola, in occasione della riunione dei docenti indetta per decidere quali studenti ammettere agli esami di stato (e tra questi anche l’alunno Santino Polinesso), è anche tacciato di essere “retrogrado, pericoloso, reazionario” nonché “rovina della nostra società” (p.16). E’ inutile dire che da quella riunione il nostro professore ne esce, per dirla con una espressione semi-seria di Gaetano Celestre, come “un ebreo che era stato a cena con Hitler” (p.16). In tale contesto il prof. Ariodante rappresenta, in un certo qual modo, la voce del dissenso
Nel prof. Ariodante si nota anche un certo sforzo per cambiare il modo di come vanno le cose. Un certo rifiuto alla rassegnazione. In Ariodante si può notare una sorta di “sicilinconia”, termine recentemente coniato da Piero Carbone, affermato poeta dialettale racalmutese. Con tale termine ha dato il titolo ad una raccolta poetica “Venti di sicilinconia”, un’opera che, nel settembre scorso (2009), la giuria del Premio Martoglio ha premiato. Il termine “sicilinconia” vuole marcare uno stato d’animo, “un sofferto cammino per le vie più intime della nostra coscienza per rilevare una delusione che più sociale è anzitutto esistenziale”. In Ariodante non è assente quel desiderio di uscire dallo stato di prostrazione.
Iniziano così le sue rocambolesche peripezie.
Accusato di un reato mai commesso, il professore inizia la sua fuga notturna su un gommone abbandonato da certi “scafisti” attraversando il canale di Sicilia. Quello di Iachino si rivela come un viaggio onirico, di omerica memoria, che dovrà “fare i conti col suo senso di Sicilianità”, ripercorrendo a ritroso le rotte dei migranti. Un viaggio che l’autore arricchisce con interazioni mitologiche ed incredibili teorie del complotto, con contorno di serio e faceto, tra dialoghi con un delfino di nome “Calamaro” e di professione ragioniere ed apparizioni del leggendario Cola Pesce, un uomo eccezionale che, secondo la leggenda, riesce a stare per moltissimo tempo sott’acqua, e che nel volume di Gaetano Celestre, prendendo quasi spunto da una moderna iconografia, è immaginato “per metà uomo e metà yacht”. La leggenda di Cola Pesce è diffusa in tutta la Sicilia ed in tutto il mondo mediterraneo, e di essa corrono numerose varianti (alcuni ne contano 40; quella di Gaetano Celestre penso che sia la 41^ variante!), sicché di questa leggenda si può parlare come una sorta di leggenda “nazionale” della Sicilia, per gli elementi culturali, storici e ambientali che vi si trovano. Una delle varianti della leggenda vuole che Cola Pesce si trovi ancora in fondo al mare, per sostenere una delle tre colonne, ormai pericolante, sulle quali, secondo la fantasia popolare, si regge l’isola. Tre sono le colonne, come tre sono le punte che delimitano la Sicilia. Da qui l’emblema stesso della nostra isola, detta appunto Trinacria, raffigurata dalla Gòrgone da cui si staccano tre gambe che si rincorrono quasi a simboleggiare il movimento. Ed è proprio questo movimento - inteso come spostamento, viaggio, esilio - che ha dato gli elementi ispiratori a Gaetano Celestre. Mi riferisco alla “fuga” di Gioacchino Ariodante.
“Era una fuga quella di Gioacchino?” (p.43). Se lo chiede anche l’autore, mentre il “fuggitivo”, indisturbato, “sparisce veloce ed agile come un cinghiale in una boccia di marmellata”! (p. 39).
Fuga, ma anche desiderio di tornare come afferma lo stesso protagonista, Gioacchino, nel corso della sua permanenza in una delle sue tappe: “Io adoro la Sicilia e non faccio che sognarla da quando sono partito” (p. 65).
Ma perché questo assillo?
A tale proposito mi piace citare tre riflessioni pubblicate sul quotidiano “la Repubblica” nel gennaio del 2005. La prima riguarda la scrittrice Dacia Maraini, la quale afferma: “La Sicilia è una terra molto intensa nelle sue contraddizioni, poetica e fortemente drammatica. Sono luoghi forti che si prestano al racconto. La nostra è una terra narrativa per eccellenza”.
La seconda riflessione è quella di Gaetano Tranchino (pittore apprezzato e lanciato nei circuiti nazionali dallo stesso Sciascia), il quale durante una mostra a Milano ebbe a dire: “Nessuno riesce mai ad andare davvero via, a recidere le radici. E quando scappano esasperati da tutte le storture e i disservizi che angustiano la nostra vita non fanno altro che cercare altrove quello che hanno lasciato o perduto in Sicilia”.
La terza riflessione è quella dello showman Rosario Fiorello che, in maniera più spicciola, afferma: “…E’ una questione di Dna. Anzi la sicilianità è peggio del Dna. Io da adulto ho vissuto ovunque tranne che in Sicilia eppure cerco l’ispirazione sempre nell’isola. La mia insularità mi sta addosso come una seconda pelle, non riuscirei mai a staccarmene. Siamo attaccati alla nostra terra”.
Anche Iachino, il prof. Ariodante, è attaccato alla sua terra e dovrà “comunque fare i conti col suo senso di sicilianità”, affrontando, in questo suo movimentato viaggio, le mille difficoltà offerte anche dal mare che, considerato il suo stato d’animo, si presenta nero, notturno e, dice l’autore, “scuro come il vino” (p. 66), (“color del vino…” come avrebbe voluto Leonardo Sciascia, espressione che l’autore ricorda nel corso della sua narrazione, ricorrendo alla formula cui attingevano i poemi omerici per descrivere il mare ed indicarne il colore).
E’ con questi espedienti, che Gaetano Celestre rende piacevole la lettura del volume, in cui i personaggi incontrati dal protagonista risultano incastonati in scenari grotteschi e paradossali di pirandelliana memoria: dal personaggio di Don Pietro (p. 48), il lampedusano pescatore di mezza età che suona il sassofono, a quello del tunisino Dhakir (pp. 84 - 88) che, sebbene sia laureato in fisica nucleare, è costretto, per le avverse vicissitudini della vita, a trovare lavoro “come venditore ambulante di adesivi per lattine di coca cola”, oppure all’arabo di nome Piergiorgio (p. 98) dalla parlata milanese (p. 97).
L’architettura narrativa è costituita da una scrittura che riproduce il ritmo e l’incanto dell’oralità, con le sue divagazioni, i suoi inciampi, gli improvvisi cambi di registro e di tono, dove tragico e comico, rabbia e malinconia si tessono continuamente tra citazioni classiche e cultura moderna (a tale riguardo è necessario fare presente che i nomi dei personaggi Ariodante e Polinesso sono tratti dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto; ma sono anche i protagonisti di un’opera in tre atti musicata da Händel nel 1735).
Quella di Celestre è anche una scrittura capace di rispecchiare fedelmente la vita, intrisa di “cospirazione” che lega – cito testualmente - il “Diritto Bancario a Mickey Mouse, i Templari al mondo della cosmetica” (p.43), in una società immersa in un mondo dalle mille contraddizioni dove - cito ancora - “mentre uno entrava in galera per aver rubato un pacco di pasta, un altro usciva dopo aver ucciso per un parcheggio” (p.43).

All’autore va anche il merito di aver usato un linguaggio attuale, inframmezzato da modi di dire e da frasi nella parlata locale evocante neologismi camilleriani.

Mi avvio alle riflessioni conclusive prendendo spunto da un particolare: ovvero da quello che ho definito “inciampo narrativo”… … …

Inciampo narrativo (da pag. 64)
Ad un certo punto del racconto Gaetano Celestre passa dalla terza persona alla prima. All’inizio la cosa mi ha un po’ disorientato. Poi ho fatto qualche riflessione in proposito.
Penso che si tratti di un artificio, forse un po’ rischioso.
Una sorta di “straniamento” e, se vogliamo, anche uno “scherzo” che l’autore fa al lettore. Il gioco consiste nel non saper più chi è “narratore” e “narrato”. In questo penso di aver interpretato il ragionamento di Gaetano Celestre: se in Gioacchino c’è parte del narratore, a cosa serve il narratore? Può narrare benissimo Gioacchino, forse meglio, poiché sta vivendo la sua storia in prima persona. Mi sorge il dubbio, che conservo ancora oggi, se ci sia più Gaetano nel narratore o in Iachino (o quanto c’è di Gaetano in Iachino e viceversa; ma questo lo lasceremo dire all’autore, nel corso del suo intervento conclusivo).
Passando in prima persona, il racconto diventa quasi più reale perché non “ingessato”, libero di fluire nella sua dinamica.
Ciò accade quando l’aereo (con a bordo Iachino e Dhakir; i due stanno fuggendo clandestinamente verso la Tunisia) cade in mare. L’autore, in quella parte, scrive due volte il fatto immediatamente accaduto:


(pag. 63, ultimo capoverso)
Gioacchino si avvicinò col suo salvagente e si accorse immediatamente di aver fatto una grossa
stupidaggine, il gonfiabile non riusciva a tenere in superficie tutti e due.
La lotta per la sopravvivenza della specie fu interrotta dalle sirene di una motovedetta.

E subito dopo, a pagina successiva (pag.64):

Ad un certo punto avvertii attorno a me qualcosa di strano.
Come se mancasse qualcosa.
Il Tunisino forse?
No, era sempre lì, decisamente preoccupato per il suo futuro prossimo ed indaffaratissimo tra i flutti.
Poi il dolce rollio del moto ondoso, piuttosto blando e molle per la mezza bonaccia..., fece sorgere in me la certezza. La risposta alla domanda che mi ero appena posto e purtroppo solo a quella.
Era una questione di suoni, come se mancasse una voce.
Mi decisi e in poche bracciate fui da Dhakir.
“Aggrappati, non so se il salvagente ce la fa ma se proprio si deve morire agonizzanti in mezzo al
mare, magari a causa di uno dei pochissimi squali del mediterraneo (pensa che fortuna!?!?), è
meglio in due. Anche per solo spirito di fratellanza tra i popoli, no? Ma questo capisce?”
Dhakir mise mano sul salvagente e poi mi disse:
“Arriva motovedetta, guarda.”
Era vero, una piccola imbarcazione dalle vaghe sembianze militaresche veniva verso di noi.
La salvezza?

E’ in questo punto che scompare ogni architettura programmata. Intanto è necessario evidenziare che “il fatto” viene descritto con sfumature leggermente diverse nelle due parti.
Nel primo pezzo, il narratore è più pratico, vede i fatti in maniera “distaccata”: vede due persone che non resisteranno a lungo su di un piccolo gonfiabile e scorge, in lontananza, una motovedetta.
Nel pezzo letto poc’anzi, Gioacchino, interviene in prima persona decidendo di fare la sua prima vera azione: cercare di salvarsi e nuotare verso Dhakir.
È sparito il narratore. Ed è da questo momento che, effettivamente, Iachino comincia a sentirsi (quasi) bene, ancora meglio che a Lampedusa (che è una delle tappe del suo peregrinare). Si sente più vero e comincia a sognare la sua vita. Solo vivendo in prima persona si può sognare e ciò diviene chiaro verso la fine del racconto.

Quando Iachino ritorna in Sicilia, ritorna anche il narratore. Ma ritorna anche la vita “ingessata” di sempre o almeno così pare!
Il prof. Ariodante è stato lontano per troppo tempo dalla sua Sicilia, ma anche dalla sua Scuola, dai suoi studenti. Gli si mostrano innanzi, avvertendoli nella loro incorporea essenza, venti impetuosi di metamorfosi nel campo dell’insegnamento che, frattanto, hanno portato l’introduzione di nuove materie scolastiche, quali, ad esempio: “Matematica Applicata Al Guadagno”, “Letteratura Aziendale”, “Educazione Fisica Delle Falangi” e tante altre.

Allora, la Sicilia, tanto sognata dal professore nel corso della sua lunga assenza, non è quella reale? E la Scuola, la sua Scuola, è cambiata? E’ questa la verità?
Ma … “… la verità è una, nessuna, centomila”.

Giuseppe Nativo

Recensione Bagni Achei. di Giovanni Denaro
Bagni achei non è stata la prima opera che ho letto di Gaetano Celestre; ho infatti avuto la possibilità di leggere alcuni racconti brevi pubblicati sul proprio blog e che hanno rappresentato una sorta di antipasto a questo suo primo romanzo.
Romanzo moderno, come lui stesso l’ha definito, ricchissimo di sfaccettature tale da non potersi classificare con facilità da un punto di vista sia del genere che della tematica. Una lettura che è scivolata via davvero con leggerezza, che non ha stancato ma che al contrario ha messo l’accento su tantissimi aspetti di un’importanza tale che sembra impossibile che l’autore sia riuscito a condensarli tutti in quest’amalgama cosi suggestiva composta da appena 133 pagine.
La storia, ambientata nella bellissima terra di Sicilia, si snoda attorno alle vicende di Gioacchino Ariodante, giovane professore di un paesino di provincia assorbito dalla normalità della quotidianità fino al giorno in cui il gioco delle circostanze fortuite e degli equivoci del caso non lo mettono di fronte a una situazione ai limiti del paradosso che cambierà definitivamente la sua esistenza.

Non già un’esistenza da definirsi mediocre quanto piuttosto una vita come tante, normale e senza grandi emozioni ed un personaggio, quello di Gioacchino, che porta con sé tutta la stanchezza e l’amarezza del vivere che Sciascia ha benissimo rappresentato in due sue opere fondamentali, “Il cavaliere e la morte” e “A ciascuno il suo”, disegnando la fragile condizione umana con spietata quanto sincera crudezza puntellata solo di tanto in tanto da punte di barocchismo appena tuttavia sufficienti a rendere affascinanti le vite di queste anime peregrine che sono i sognatori siciliani.
Pescatori, intellettuali, professori e artisti musicisti che popolano il romanzo di Gaetano Celestre e nei quali un siciliano non può non riconoscersi, perché è di noi che si sta parlando, di noi come siamo ora e di come siamo sempre stati.
Non so ben dire se Gioacchino possa definirsi un eroe, sebbene abbia letto tutta la sua vicenda ed effettivamente, se così fosse, dovremmo allora reinventare il concetto di eroe, dimenticando il bardo solitario che protegge tutti contro tutto per accogliere la ben più romantica idea di chi, solitario ciottolo sul fondo di questo oceano che è la vita, compie ogni giorno sforzi immensi per resistere alle ingiustizie della vita, o per resistere forse alla vita stessa.
Questa è la verità che traspare dalle pagine dell’opera: si resiste ogni giorno alla mestizia del vivere quotidiano, e si resiste con un senso di appartenenza alla nostra terra di Sicilia che solo si può spiegare facendo riferimento a quel sentimento sui generis che si traduce in amore e odio per una stessa cosa.

È la c.d.isolitudine, tema dolce amaro come lo è del resto la malinconia.
Un sentimento vivo di contraddizioni, l’orgoglio del nostro essere isolani unito alla condizione di separatezza che ci tiene lontani dal mondo.
” La fierezza dell’unicità e l’esilio del naufrago”, utilizzando parole di Gesualdo Bufalino che sintetizzano al lettore la sensazione di particolare abbandono cui si lascia andare il nostro pensiero, sempre in bilico tra il nostro essere e ciò che si potrebbe essere, con i piedi ben piantati in terra e la mente che va oltre il mare, a esplorare - con le intenzioni soltanto - l’altro dalla Sicilia. Per noi siciliani il viaggio non è semplicemente momento indolore, spensierata rilassatezza.
Per noi è veramente morire.
Più che un cenno merita lo stile di scrittura che posso ben definire originale e moderno- viste le numerosissime incursioni che Gaetano compie nel mondo del non-sense, dell’irrazionale e del paradosso più assoluti, sia da un punto di vista scenico che grammaticale, come il Lewis Carroll di Alice nel paese delle meraviglie; ma al contempo tradizionale come non mai, non rinunciando al dialetto siciliano a dimostrazione del grande amore verso la sicilianità tutta, soprattutto quella dei modi di dire e dei modi di fare.
Ma a sorprendere di più è forse la sottile(ma neanche tanto, a volerci ben pensare) analisi politica e sociale della nostra epoca con la quale l’autore passa in rassegna tutti gli stereotipi e i luoghi comuni tipici del bel paese in generale e della Sicilia soprattutto, affrontando tematiche di un’attualità incredibile come la mafia e gli sbarchi clandestini sulle coste siciliane, il tema delle ingiustizie e dei soprusi vecchi quanto il mondo e che dividono il genere umano in disonesti-vincenti e umili - perdenti.La storia del genere umano, di sempre.
Ed è forse questo il messaggio che l’autore vuole far passare: il mondo vive da sempre con le sue ingiustizie, con i suoi drammi, con i suoi paradossi e le sue contraddizioni, anzi vive di tutto ciò, ed è una normalità che non si può combattere ma eroicamente accettare, non già supinamente, genuflessi innanzi all’ineluttabile destino della condizione umana ma resistendo “eroicamente” in questo giardino tanto bello quanto a volte spietato.
L’amaro in bocca, questo rimane alla fine dell’opera. Se questo sapore sia spiacevole o meno, beh, questo è tutto da capire!!! Giovanni Denaro, 28/05/09.

Suggerimento per una domanda certa, di Giovanni Denaro (16 - 04 - 2010)


Quando Gaetano mi ha chiesto di buttare giù qualche riga da leggersi in occasione della presentazione di “Bagni Achei”, ho subito cercato qualche spunto che mi consentisse di andare oltre quanto avessi già scritto nella recensione.

E lo spunto mi è stato offerto da un articolo di giornale, che ha subito catturato la mia attenzione, che riportava le dichiarazioni di un esponente della classe dirigente siciliana; dichiarazioni secondo cui certa letteratura isolana- nello specifico Sciascia, Tomasi da Lampedusa e Camilleri- andrebbe per almeno un anno accantonata, boicottata perché rea di portare sfiga alla Sicilia.
Eccolo qui il mio spunto perché, lo confesso, alla lettura di tale articolo, che riportava anche le opinioni in merito di Camilleri, non ho potuto non pensare anche a Bagni Achei e a ciò che esso rappresenta, a ciò che esso suggerisce.
E a onor del vero, non avendo fatto mistero degli umori sciasciani che ho riscontrato nell’opera di Gaetano, per associazione di idee ho pensato che anche la sua letteratura nascente dovesse considerarsi alla stregua di quella succitata.
E spiego perché.

Leggendo della vicenda di Gioacchino, della sua vita quotidiana corredata di normalità e degli sviluppi successivi che l’hanno fortemente investita per poi riportarla alla situazione di partenza ,ho ritrovato l’idea della vana, e funzionale a se stessa, circolarità della vita, delle cose; un caos naturale, sempre uguale, che si ripete in una spirale monotona che sembra non lasciare spazio alla possibilità del nuovo.
La nostra giornata è fatta, come tutta la vita, di misteriose rispondenze, di sottili collegamenti, diceva Sciascia per l’appunto.
Sembra quasi una visione rinunciataria, e in parte lo è. E dico solo in parte perché la consapevolezza, acquisita in ragione dell’esperienza, rappresenta il punto di partenza non per risolvere il problema ma per porsi il problema.
Il momento cruciale è l’abbandono coatto, da parte del protagonista, delle comode abitudini e la fuga rocambolesca tra le acque del mediterraneo.

Qui colloco la chiave di lettura del romanzo.
Se da una parte sembra quasi che, a lettura finita, la storia ricominci nuovamente a riproporre lo stesso, stanco canovaccio, dall’altra parte l’acquisita consapevolezza spinge il lettore a pensare se e in che misura si possa(o si debba secondo qualcuno) riconoscersi un ruolo anche a chi sembra essere solo una pedina in questo lento scorrere delle cose. E’ vero, Gioacchino resiste, citando la mia recensione, ma indirettamente suggerisce, in forza della sua vicenda; suggerisce di assecondare ma con ragionamento, di sopportare senza soccombere, di sopravvivere e con orgoglio.

E’chiaro naturalmente che questa sorta di maturità dell’intelletto(il Gioacchino della fine è diverso dal Gioacchino dell’inizio) scateni una miriade di interrogativi, fornisca la base per dubbi sulle nostre possibilità; non già placide certezze sulle quali sprofondare ma una presa di posizione di chi, alzando la testa guarda e invita a guardare.
Per fare cosa, chiederete?

Come ho già anticipato prima, Gaetano suggerisce la necessità del porsi la domanda senza tuttavia l’ardire di fornire le comode risposte sulle quali poterci adagiare.
È dunque una spinta al cervello, uno scossone per dire che se la vita scorre come un fiume- e nessuno può invertirne la corrente- allora che si provi almeno a chiederci per quale motivo ci troviamo a cavalcare questo flusso continuo, non già per domare ma per rendere indolore- o se si riesce piacevole- questo continuo fluttuare.
Ed è un flusso che trascina di tutto con sé, disorganico e surreale, che spinge al sorriso sarcastico, acido e distaccato, e lo stile di scrittura adottato riflette splendidamente questo senso di vortice irrazionale.

L’ho ribattezzata narrativa di mezzo proprio per fare riferimento ad un messaggio letterario volutamente non circoscritto, aperto e le decisioni dell’autore anche in merito al finale della vicenda ne sono la dimostrazione.
Ed è una scelta a mio parere coraggiosa, propria quella della mancata definizione sia degli accadimenti sia dei personaggi, non ci sono vinti né vincitori,né tantomeno buoni o cattivi o, diversamente, se vi sono li troviamo tutti indifferentemente sulla stessa barca e lo stesso Gioacchino, filo conduttore della vicenda e del tutto protagonista della stessa, si presta a difficili inquadrature; è una libertà di coscienza, forse da taluno interpretabile come presunzione, nella quale si concentra una filosofia dell’esistenza fondata sul riso amaro e riflessivo.

Una frase di Goethe esprime questo concetto: “Ma voi uomini quando parlate di qualche cosa, dovete sempre dire: è pazza, è savia, è buona, è cattiva!
E questo che significa? Avete voi, che dite così, indagato i moventi interni di un'azione? Sapete scoprirne con certezza le cause, e capire perché è avvenuta e perché doveva avvenire? Se l'aveste fatto, non sareste così pronti a giudicare.”

Viviamo nell’era dell’ottimismo a tutti i costi, della bellezza formale ostentata in ogni modo, nell’era delle divisioni perfette e delle bandiere aventi ciascuno il proprio colore. E ricollegandomi, alla luce di quanto detto finora, a quello che è stato lo spunto per questa mia digressione, mi chiedo io, chi si azzarderebbe oggi a tuffarsi, a provare questi “Bagni Achei”, a parlare con i nostri vicini di mare(neppure Iachino ci avrebbe scommesso!), a sognare ad occhi aperti e ad osservare, a volte con disincanto, a volte con disgusto, ciò che esiste e ciò che è stato fatto?
Caro Gaetano, chi lo facesse probabilmente ti prenderebbe per uccellaccio del malaugurio, attentatore delle tranquillità altrui, sopite e ben ristorate.
Che cosa voglio dire con queste parole? Sarò chiaro!

Essere intontiti oggi è conveniente, è una condizione che permette di crearti attorno delle pareti di certezze relative, dai colori densi e rilassanti e che fanno appassire la naturale inclinazione alla critica e alla domanda che ognuno di noi dovrebbe invece custodire sempre. Il buon Gaetano insomma ci sta suggerendo di provare l’ebbrezza- ed è qui che si realizza la coraggiosissima scelta di cui sopra-che ci deriva dall’uso della nostra intelligenza, oggi fin troppo svilita da un uso meccanico e per nulla incline al vero e alla bellezza.
Se non bastasse sarò ancora più chiaro: Gioacchino compie quell’onirico, classicheggiante, romantico viaggio che così fortemente cattura l’attenzione del lettore senza televisione e senza polemiche di alcuna sorta, trascinato solo dalle note di un languido sax e dalle onde del mediterraneo.

Questa è la letteratura nascente di Gaetano Celestre, ripeto ancora una volta ardita nel messaggio che suggerisce, ed ecco il motivo per cui, tirando le fila di questo mio discorso e rinviando la vostra attenzione al mio incipit, colgo un nesso non indifferente con gli autori già citati, gli umili Sciascia, Camilleri e Tomasi da Lampedusa ; e come da questi già superbamente fatto, ti auguro caro Gaetano di continuare a portare avanti questo tipo di letteratura così fortemente mediterranea nei sapori, densa nei contenuti e incisiva, mordace nello stile di scrittura e ben venga sì, che questo tuo suggerimento per una domanda certa- e per mille risposte incerte, ammesso che ce ne siano- possa essere anche tacciato di “sfiga” o di scomodità, proprio ciò di cui oggi abbiamo tanto bisogno.

Concludo con una frase, che penso racchiuda il senso di quanto detto finora.
Diceva Voltaire: Giudica un uomo dalle sue domande piuttosto che dalle sue risposte.
Giovanni Denaro


Bagni Achei - Humor Acqueo, di Guglielmo Emmolo

Mi dispiace moltissimo non poter essere presente per almeno due motivi. Da un lato per l’amicizia che mi lega a Gaetano, dall’altro perché è la prima volta che mostro pubblicamente un mio video. Quindi ringrazio Gaetano, il Centro Studi Feliciano Rossitto e l’Associazione Culturale La Meglio Gioventù per avermi dato questa opportunità. Dal punto di vista tecnico Humor Acqueo è un’opera orgogliosamente dilettantistica perché realizzata con tecnologie alla portata di tutti; basti pensare che le riprese sono state effettuate con una comunissima macchina fotografica compatta. E in effetti la prima riflessione che il video può suscitare riguarda la responsabilità che tutti noi abbiamo in quanto produttori di immagini e non solo consumatori. Se criticare il potere per il modo in cui sfrutta i media è importante, credo sia quasi inutile se parallelamente non si cerca di costruire un’alternativa concreta. Da questo bisogno parte il mio lavoro: smettere di essere uno spettatore passivo e cercare di dare forma al mio immaginario autonomamente. Infondo è stata una simile necessità a spingere Gaetano a scrivere e Iachino a partire. Ho avuto la fortuna di leggere Bangni Achei prima che fosse stato pubblicato, o forse ancora prima che fosse stato scritto, avendo condiviso con Gaetano interminabili bagni e altrettanto lunghe passeggiate. Proprio per questa mia vicinanza all’autore voglio evitare in questa sede complimenti che a quasi un anno dalla pubblicazione del romanzo, detti da me, suonerebbero retorici, oltre che di parte, e scadrebbero nel già detto. D'altronde il fatto stesso che lettori sicuramente più esperti di me ed un’altra associazione culturale composta da ragazzi gli abbiano dato l’opportunità di parlare della sua opera in quest’occasione, costituisce di per sé la migliore delle gratificazioni. Mi interessa piuttosto fare una riflessione che, se più fredda di quanto si addirebbe ad un amico, avrà quantomeno il merito di essere lucida. Con ciò spero di rendere il più possibile giustizia ai meriti di Gaetano. L’ispirarsi a classici come i poemi omerici o il furioso, prendendoli come componenti testuali, per uno scrittore siciliano dei giorni nostri comporta inevitabilmente l’affrontare l’evidenza di un Mediterraneo che in passato divideva e univa contemporaneamente popoli diversi, ma che nell’era in cui si naviga più sulla rete che in mare divide più che unire; l’affrontare il problema di un assetto politico e un modello culturale che attraverso i media cerca di convincerci che siamo più vicini a un nordeuropeo o ad un nord italiano che ad un nordafricano, tagliando così una parte consistente delle nostre radici. Ma più che le tematiche di scottante attualità quello che mi preme mettere in luce è il modo col quale è riuscito ad esporle. Da questo punto di vista Bagni Achei risulta un libro non semplice da leggere, ma che allo stesso tempo si fa leggere piacevolmente grazie alla costante ironia del narratore. Ma chi è questo narratore? Quello onnisciente che usa la terza persona o il protagonista stesso che si racconta in prima? E chi è il protagonista Gioacchino o Iachino? E chi tra i tanti Iachini che si immergono e riemergono numerose volte dal mare. Un mare concreto e fatto di acqua quanto metaforicamente rimandante ad una dimensione altra della mente. Sarebbe altrettanto lecito porsi analoghe domande riguardo altri importanti personaggi come l’antagonista Santino, la bella Dike o lo stesso Garibaldi; domande, comunque, alle quali sarebbe difficile rispondere con nettezza. Tanto la critica contemporanea quanto i migliori detective in casi ambigui come questo consigliano di partire dai quei punti della narrazione che risultano particolarmente anomali e che più mettono in crisi la coerenza del racconto, quei punti che lo fanno vibrare. Tra i tanti punti di vibrazione presenti nel romanzo uno mi è sembrato particolarmente significativo. Non credo sia un caso che si trovi a metà del libro. Iachino trovandosi “per l’ennesima volta, nel giro di poco tempo, in balia delle procellose onde” si immerge nuovamente nel lato oscuro della sua mente dove la guida Dike lo mette davanti a delle prove da superare. Il protagonista, adesso anche narratore, afferma: ”Non ero più me stesso ma qualcun altro. A sua volta qualcun’altro non era più sé stesso ma me”. E’ rilevante il fatto che la prova che segue questa affermazione faccia riferimento ad un esame di Diritto, rimandando non troppo velatamente all’esperienza di vita dell’autore stesso. Rilevante perché l’esito della prova, il pareggio, deludente dal punto di vista del lettore, porta quest’ultimo a ricercare la tensione narrativa fuori dalla narrazione, nel rapporto tra i personaggi e l’autore. Infondo Gaetano ha messo un po’ di sé anche nel cattivo Santino. Ed è qui, oltre che nelle tematiche trattate, che risiede l’attualità di un romanzo che si mostra nel suo farsi. In un autore che scende dal piedistallo e si mostra come uomo comune con le sue contraddizioni, ma che mette alla prova il lettore ricordandogli che ogni atto di lettura è già un riscrivere la storia letta. Proprio per questo non viene imposto nessun finale. Anzi è l’autore stesso che ci rende partecipi delle sue perplessità riguardo il mettere la parola fine ad un racconto. Se poi focalizziamo la nostra attenzione sul piano delle singole parole, queste si mostreranno non meno aperte della narrazione. Esse, infatti, vengono mostrate al lettore con manifesta arbitrarietà nei loro molteplici significati, nella loro crisi d’identità. Capita ad esempio che la parola “guida” venga usata, nel giro di queste poche pagine, sempre per definire il ruolo di Dike ma nei modi più bizzarri. Ad esempio quando Iachino spaventato dall’esame si rivolge alla Dea usando il vocativo: “O guida dello studente, io non so niente di queste cose.” O quando paragona la Dea-guida alle istruzioni per montare sedie: ”Era una guida di poche parole, come la guida di certe sedie in kit da montaggio”. E successivamente quando interrogato da Dike sull’esito dell’esame non sa rispondere: “Beh sì, credo, anzi, effettivamente, beh, pesandoci bene, o Dea, forse no, vero? Ma la sedia doveva costruirsi senza tante istruzioni così continuai.” Questo giocare al limite del nonsense, che superficialmente può sembrare banale umorismo, fa riflettere sul meno divertente problema odierno riguardante parole, che storpiate nell’uso che ne fanno i media, perdono il loro significato fino a non significare più niente. D'altronde cosa c’è di più paradossale di una società nella quale la comunicazione è resa impossibile proprio da un eccesso di comunicazione? Un problema simile riguarda le immagini che costituiscono un linguaggio al pari delle parole. Ignorare questo linguaggio significa subire il forte impatto emotivo che queste causano senza il filtro della ragione. Un po’ come navigare su internet senza antivirus. Da qui nasce il mio desiderio di mostrare la realtà in maniera alternativa, cercando di imporre allo spettatore il dovere di farsi e fare domande su ciò che sta vedendo. Il mio esperimento è partito fissando una macchina fotografica capace di registrare video ad un supporto metallico che ho appeso ad uno spago. Facendo ruotare il tutto ho ottenuto movimenti di macchina circolari e veloci e una visione distorta dell’ambiente circostante. In quest’ottica la morfologia del paesaggio crea un ritmo visivo e la proprietà primaria che rende ogni cosa percepibile all’occhio, ovvero la capacità di riflettere la luce solare, riacquista con maggior evidenza la sua centralità. Inoltre l’apparente distinzione tra due concetti come lo spazio ed il tempo si rivela nella sua relatività e nella sua labilità. Alle riprese è seguita la fase di montaggio e ulteriore alterazione tanto delle immagini quanto dell’audio, in modo da fondere le vibrazioni luminose a quelle sonore. Ma prima di parlare brevemente di quest’altra fase e dei rapporti con Bagni Achei è più giusto che vediate il video. Non voglio influenzare la vostra visione più di quanto avrò già fatto con queste prime suggestioni.



Seconda Parte (letta dopo la visione del filmato):



Quando Gaetano mi ha chiesto di realizzare un video correlato al suo romanzo ho accettato subito senza riserve, perché il dialogo e le relazioni tra diversi linguaggi artistici mi hanno sempre affascinato particolarmente. Non è un caso se ho scelto di studiare al DAMS. Oggi si fa un gran parlare della multimedialità intesa come uso e sovrapposizione simultanea di più linguaggi alla ricerca di un’arte totale. Troppo spesso però si cade nell’errore di produrre una mera somma di linguaggi senza che questi dialoghino realmente tra di essi. Ancora più spesso il video in questa somma viene asservito agl’altri linguaggi al punto di diventare mera decorazione. Non volendo cadere in questi errori, ho scelto di affrontare il problema dal punto di vista dell’intermedialità, ovvero l’estensione reciproca dei singoli linguaggi. Infondo Gaetano non mi ha chiesto di realizzare uno spot pubblicitario per il suo romanzo ma un video autonomo che si ispirasse ad esso e che dialogasse con esso; operazione, questa, tutt’altro che semplice dal momento che il mio linguaggio è quanto di più lontano possa esserci da quello della scrittura. La videoarte o meglio le arti elettroniche, dal momento che l’audio non è affatto secondario al video, costituiscono all’interno della storia del cinema la continuazione dell’esperienza delle avanguardie e del cinema astratto, mediante l’uso delle nuove tecnologie: il tubo catodico dagli anni sessanta e il computer adesso. Con queste premesse l’operazione concreta che dovevo compiere era di rendere i concetti che stanno alla base del romanzo a livello di metafore visive e sonore, ed allo stesso tempo riflettere sull’atto di vedere in maniera analoga a come lo scrittore riflette su quello di scrittura e lettura. Infatti il titolo del mio lavoro fa riferimento tanto all’umorismo col quale Gaetano gioca con le parole quanto all’umore acqueo, senza h iniziale, che sarebbe un liquido presente nella pupilla e fondamentale per il funzionamento dell’occhio. Detto questo, se i concetti più profondi del romanzo sono meglio percepibili nelle parti più anomale della narrazione, il mio compito è stato quello di rappresentare il punto di vista di Iachino nell’attimo in cui, rischiando di annegare, perde coscienza. Quindi dilatare ed analizzare quel momento di cui non ricorda nulla e che ha descritto come buio. Da qui la scelta di realizzare un video brevissimo ma tanto denso da contenere il senso più profondo, e quindi più superficiale, dell’intero libro: l’inafferrabilità del significato dell’esistenza umana. Per fare più chiarezza mi affido alle parole del grandissimo regista Michelangelo Antonioni:
“Sottoponendo la pellicola impressionata a un determinato processo detto di latensificazione, si riescono a mettere in evidenza elementi dell’immagine che il normale processo di sviluppo non basta a rilevare (…) Forse la pellicola registra tutto, con qualsiasi luce, anche al buio (…) Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione d’essere.”
Per illuminare questo buio e riempire questo vuoto della narrazione ho cercato di mostrare una temporalità non lineare, composta da dimensioni parallele che possono anche unirsi per un attimo per poi risepararsi, ricollegandomi così a Iachino che rivive in un breve sogno un pezzo di vita del suo stesso autore. Ho scelto, quindi, un montaggio orizzontale del girato; ovvero ho inserito all’interno dello stesso quadro riprese di luoghi diversi nelle quali la macchina fotografica gira a velocità differente, ma che si fermano e cambiano senso di rotazione nello stesso istante. In tutto ciò i luoghi attorno a Scicli, anche se vistosamente deformati, costituiscono il principale oggetto del video e rappresentano il più visibile legame tra Humor Acqueo e Bagni Achei. Se è vero, come dice Gaetano, che l’unica cosa certa riguardo la parola “fine” è che apre un altro discorso, giunto anch’io al termine del mio intervento, lo concludo condividendo con voi quello che è stato il punto di partenza di questo mio lavoro: la dedica che l’autore ha scritto sulla mia copia.
Caro Guglielmo, a mesi di distanza, da quando ho messo l’ultimo punto alle parole aperte di questo libro, mi fermo spesso a riflettere sulla mia presunzione. Quella che mi fa credere fermamente nei luoghi che ci hanno ospitato durante le nostre passeggiate. Che siano stati loro a raccontarmi di Iachino?
Ti auguro buona lettura

Guglielmo Emmolo



lunedì 12 aprile 2010

venerdì 16 aprile 2010, ore 18.00

Presentazione libro di Gaetano Celestre

“Bagni Achei”
(MJM editore, Milano 2009, pp. 136)

L’evento è organizzato dal Centro Studi “Feliciano Rossitto”
e
l’associazione “La Meglio Gioventù”

(presso la sala conferenze del Centro Studi “F. Rossitto”, via Ducezio 13, Ragusa)



Interventi:

- Giuseppe Nativo (pubblicista)

- Giovanni Denaro (scrittore)

- Proiezione di un filmato (opera del “videoartista” Guglielmo Emmolo)

- L’attore Giorgio Sparacino leggerà alcuni brani del libro

- sarà presente l’autore

domenica 31 gennaio 2010

Un nuovo racconto ed il suo narratore

Un nuovo racconto, o meglio, il canovaccio di esso; la storia falsa ed immaginaria di un personaggio, come si suol dire, di pura fantasia.
Il soggetto principale di questo racconto è uomo, forse ancora giovane, qualcosa in più di trenta anni di età, magari trentatré. Arrestato perché ritenuto, probabilmente ingiustamente, facente parte di una cellula terroristica; mandante ed autore diretto, presunto, di taluni orribili delitti.
Sì, tanti sono i miei dubbi, in qualità di narratore non giuridico, poiché in fondo le accuse muovevano tutte da senz’altro opinabili presupposti, quali ad esempio l’abitare sopra il panificio-osteria ed ex pescheria, attività di comodo, ritenuta sede occulta della cellula rivoluzionaria già citata. Altre simili supposizioni derivavano dall’amicizia, non di lunga data per la verità, con Pietro Cefasì e Paolo Spada, noti malviventi del luogo già noti alle forze dell’ordine, per restare in una terminologia a-tecnicamente giornalistica, in quanto ruotanti attorno l’orbita della protesta a mano armata. In realtà, quindi, non c’erano certo prove dirette che collegassero questo mio personaggio di fantasia agli efferati crimini a lui imputati, ma soltanto la parola e le accuse di alcuni collaboratori di giustizia e la testimonianza oculare di un sacerdote (Parrocchia di San Caiafasso Martire, cui apparteneva anche, e non solo per motivi circoscrizionali, il tizio di cui mi sto occupando).
Come fu e come non fu, si instaurò il processo e si susseguirono penosi interrogatori diretti, per mesi. Trattenuto nella casa circondariale, in attesa che ci fosse un giudizio in merito, dopo quasi un anno, l’uomo fu finalmente scagionato, completamente tra l’altro, dalla resa confessione di “Barabba”, nome in codice della reale mente e leader del gruppo sovversivo. Ripeto, finalmente, anche se emaciato, pieno di lividi e sensibilmente provato dal regime di carcere duro cui era stato provvisoriamente destinato, fu rilasciato con effetto immediato. Intervistato dalla TV locale rispose solo con un “tutto è bene ciò che finisce bene!”.
Così, concluso questo breve schema per un nuovo racconto, chiudo il block notes e mi decido ad andare a letto. La cosa strana è che però, pur avendo terminato il lavoro, non riesco a prender sonno.
Già, qualcosa mi impedisce di essere sereno, così decido di alzarmi e quando, mezz’ora dopo, ritorno tra le coperte, provoco tanto trambusto da svegliare mia moglie:
“Sei andato a fare la pipì, vero? Te lo dico sempre di non bere troppa acqua prima di coricarti!”
“Ma no cara -gli rispondo- sono andato a cambiare il finale al racconto, non mi convinceva. Ho pensato di fare intervenire un amico di infanzia, un fidato del mio personaggio, che pagato dai corrotti servizi segreti deviati di non so quale posto, accusa ingiustamente il suo amico, smentisce “Barabba” e lo fa arrestare. Poi, un prete di cui avevo scritto prima la partecipazione, conferma i fatti e dice che lui l’aveva sempre detto e ricorda che la Parola del Signore mai è creduta, perlomeno in tempo. E insomma, alla fine, “Barabba” viene liberato e, nel dileggio generale della folla inferocita, tra sputi e lanci di pietre, il mio personaggio, esposto in piazza al pubblico ludibrio, è condannato a morte, pur non avendo commesso nulla di ciò di cui lo si accusava. Cara, ma stai dormendo?”
E così presi sonno anch’io, serenamente.

Angelo Secondo Lo Munno