sabato 24 ottobre 2009

Misterioso

Da una discussione avvenuta al circolo di conversazione:
“Uno dei ricordi di infanzia, forse il più rimosso, è ritornato alla ribalta, sul palco dei miei interessi, proprio qualche giorno fa. Mia moglie si è messa in testa (maledette donne, mai che lascino a riposo i mali pensieri) di ristrutturare l’antica Villa di famiglia. Non una masseria, intendiamoci, chiamarla così ucciderebbe mio nonno per la seconda volta, una vera e propria Villa d’altri tempi, con tanto di torre e fortificazione muraria, cappella e ossa di antica, santissima, piissima quadrisavola. Insomma, da qualche generazione, vuoi gli altri interessi, vuoi il disinteresse, l’avevamo lasciata a languire tra la sterpaglia e le feci del bestiame, affidata al figlio di uno storico campiere, a servizio di mio nonno. Era un mistero, fino a qualche giorno fa, ciò che avvenisse da quelle parti, e tale poteva restare, per quanto può interessarmene. Ma, come ho detto, la miseriaccia boia di mia moglie, che ormai ha i suoi bei settanta anni e, se non si intromette anzitempo la signora dal velo scuro, nessuno la ferma, in quanto a rompimento dell’anima… Stavo dicendo?
Ah già, mia moglie mi ha portato lì e mi ha fatto una testa tanta, cercando di farmi capire i vantaggi di una ristrutturazione. Hai voglia a cercar di farla ragionare: Che ce ne faremo mai di una masseria ristrutturata alla nostra età? Non abbiamo neanche figli! Che il diavolo se la porti, non ho potuto fare a meno di accontentarla. Vai a vedere che succede nella testa delle donne, soprattutto quando invecchiano. Fatto sta che dopo un paio di giorni iniziarono i lavori. Qualcuno potrà pensare che i guai finiscano qui. No, vi sbagliate, per Zeus tonante che sta sull’Olimpo dove nessuno gli rompe le scatole. Mia moglie, ennesimo, incontrollabile, sfizio, se la pensa bene e decide di abbattere un’ala dell’edificio dove stava la foresteria. Così sono costretto ad andare lì, con l’architetto (che ormai l’ingegnere non è di moda, e poi, in fondo sempre erede del capomastro è!), perché era venuto fuori che c’era qualche problema ad andare avanti con la demolizione. Che problema dell’anima sarà?-mi dico io! Comunque vado, con l’architetto e il mastro, confuso, mi dice:
“Signor barone, mi scusasse se la disturbo ma qua succede che ogni volta che un operaio cerca di salire le scale, dopo qualche gradino si sdirrubba e ruzzola fino in fondo, spezzandosi una volta un braccio, una volta la gamba.”

Per prima cosa mi dissi, ma a mente: “Ma cui ci ‘mparau a diri “ruzzolare”? Questi sono i danni della troppa cultura in tv, magari ha pure letto qualche libro.” Poi, rivolgendomi al tizio:

“Ma toglietemi una curiosità, sti scali si devono salire per forza? Non si può abbattere direttamente?”
Mi risponde:
“Signor barone, c’è il rischio di fari carri anchi u riestu!”

La miseriaccia diavola ch’è tra le fiamme, che si porti mia moglie e le sue fisime…
“Amuninni a virri sti scali!”- dissi.

Ed ecco qui, quel ricordo d’infanzia di cui parlavo prima:
Procedendo dal patio interno verso i locali della foresteria, c’era una strettoia che divideva, sul lato sinistro, una fabbrica da un’altra (nello specifico: foresteria e mulino). Quasi una vanedda, umida ed ombrosa, dal selciato lipposo. Inserendosi in questa, ad un certo punto si apriva una porta, sul muro a destra, e lì c’erano le scale! Appartenevano, appartengono all’ala antica della Villa, per cui nessuno tra le persone più grandi di me, mi ha mai saputo dare delucidazioni precise in merito.
Erano lì da sempre, magari anche da prima. Ricordo solo che mia madre, povera bigotta, credeva ci salisse e scendesse il demonio e mi vietava, in ogni modo, di avvicinarmi ad esse. Mio padre, d’altro canto, non se ne fregava niente, e mio nonno ancor di meno. Forse, se me lo avessero vietato anche loro, il mio interesse non sarebbe scemato, e chissà quante volte sarei andato lì, magari a cercare di salirle. Invece feci contenta, l’unica volta forse, mia madre. Trovarmele davanti, ora, in quel momento, mi fece un certo effetto. I gradini erano alternativamente bianchi e neri, nel senso che uno era bianco ed il successivo nero. Però, ogni sette gradini e successivamente ogni cinque, ce n’erano due bianchi consecutivi, per poi ricominciare infinitamente, apparentemente, la serie. Dico apparentemente perché, l’andatura della scala, ipotizzavo fosse a chiocciola. Ad un certo punto sbottai:
“Beh insomma, ci sbrighiamo a salire ste scale? Chiamate un operaio…”

In effetti, subito arrivò un giovanetto dagli occhi ed i capelli altrettanto chiari, uno slavo.

“Questo è nuovo!” – disse il capomastro, con tono indispettito.

Lo vidi, coi miei occhi, lo slavo, posare il piede sul primo gradino e letteralmente truppichiare come un imberbe mentre corre sulle strade accidentate del paese. Si rialzò dubbioso, dicendo qualcosa nella sua lingua, e riprovò a salire. Tentò più volte, riuscendo a fare solo un paio di gradini.
Dopo un’oretta non era più perplesso, o almeno ciò non si notava, sembrava un mulo, caparbio.
Prendeva la rincorsa per poi finire rovinosamente coi denti sugli scalini. Ne perse un paio, prima di abbandonare l’idea di “salire” e decidersi a “scalare”. Quasi non posava più i piedi, anzi solo sfiorava, talvolta, arrampicandosi sulle mura laterali, abbastanza strette ed anguste da consentirgli, con l’imbracatura, quell’assurdo atto di forza. Era quasi arrivato sul punto dove la scala sfumava, ruotando su se stessa ed io ero già pronto a chiedergli che vedesse, quando il tizio, lo slavo, forse avendo preso troppa sicurezza di sé, poggiò il piede destro. Cadde rovinosamente e fu quasi un miracolo se giunse ai nostri piedi ancora vivo.

“Ha visto, signor barone?” – mi diceva il capomastro, mentre l’architetto si grattava il capo.

Devo dire che ero confuso anch’io, ma non potevo certo darlo a vedere. Certo, poteva anche darsi che se ne accorgessero lo stesso ma…
All’animaccia di satanasso e della sua combriccola, per Marte e Venere che si divertono alle spalle dello zoppo, che si portino mia moglie, anzi che vengano a prendermi e mi liberino da…
Lasciamo perdere! Insomma, si chiamarono altri personaggi di provenienza extra-nazionale varia ma tutti si riducevano in maniera del tutto simile a quella del primo che aveva tentato sotto il mio sguardo. Cominciavo ad alterarmi, ma che dico “cominciavo”, ero alterato già da un bel pezzo, quando si avvicinò un monaco, incappucciato. Che ci faceva lì e chi lo aveva fatto entrare? Portano male i monaci! Feci gli scongiuri e mi allontanai debitamente. Questi, invece, mi si avvicinava. Più mi allontanavo e più il monaco si avvicinava. Mi afferrò un braccio e con tono ironico, quanto inquietante, mi disse:

“Ma che volete raggiungere? E poi, a cosa volete arrivare in tal modo? Certe cose, se proprio vanno fatte, bisogna farle ad arte!”

In quel preciso momento spuntò un cane, logoro, sporco e malandato, magro che si vedeva il costato.

“Scacciatelo!!!” – urlai.

Ma non si fece in tempo, quest’ignobile rappresentante della razza canina, che già mal sopporto, quasi quanto quella femminile, si infilò nella tromba delle scale. Saliva, poco agilmente, forse anche incespicando, ma saltava un gradino là, uno qua, l’altro lì, due insieme un po’ più in su, poi addirittura quattro in una volta ed un paio singolarmente, prima di scivolare su di una serie verso l’alto e sparire dietro il muro. Udimmo i passi ancora per qualche secondo, alternati non metodicamente né graziosamente, come solo una bestia sa fare.
Mi voltai verso il monaco e questi mi disse:

“Oppure c’è anche questo sistema!”- indicandomi la scala, appena affrontata dal cagnaccio.

Seguii l’indicazione dell’indice ecclesiastico e poi mi rigirai verso il suo possessore, ma non c’era più. Aspettammo il ritorno del cane fino a sera, poi ordinai di chiudere la porta e continuare la ristrutturazione sulle altre parti della villa.
La scala? Che stia dov’è, ho altre cose a cui pensare.
Mia moglie? …Lei, la villa, il cane e il monaco, lo slavo e i maghrebini con tutti gli architetti e i capomastri del mondo, che se li porti il.........”

Gaetano Celestre

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