giovedì 15 novembre 2012

Articolo di Antonio La Monica

Un bellissimo articolo di Antonio La Monica, apparso su La Sicilia del 14-11-2012
Grazie!!!



sabato 21 aprile 2012

Video "I Fatti Vostri" su Rai 2, Premio "La Giara"

Cari amici, ecco il video della mia partecipazione alla trasmissione I Fatti Vostri:
Video dal sito Rai (link)

mercoledì 11 aprile 2012

Domani ospite a DolceAmaro (Video Mediterraneo)

Domani mattina (Giovedì 12 – 04 -2012), alle ore 8.30 circa sarò ospite di Dolceamaro, su Video Mediterraneo. Si parlerà de “Il Giallo e l’Azzurro”, ma anche della recente selezione dell’inedito per il Premio Letterario Rai “La Giara”.

martedì 3 aprile 2012

Premio Rai La Giara. Selezionato un mio testo inedito

 
Amici carissimi, sono lieto di comunicarvi che la Commissione Regionale del Premio Letterario Rai “La Giara”, a conclusione dei lavori di valutazione dei testi inediti in concorso, ha scelto un mio romanzo per la partecipazione alla selezione nazionale. Per tale motivo il mio testo è sottoposto a opzione fino al 31 dicembre 2012. Inoltre sono felice di potervi invitare - per giorno 19 Aprile 2012, dalle ore 10:30 in poi – alla sintonizzazione televisiva con Rai 2 ove, all’interno della nota trasmissione “I Fatti Vostri”, sarà stabilito un collegamento in diretta in cui verrò presentato quale vincitore regionale della sede Rai di Palermo.

Presentazione "Il Giallo e l'Azzurro". Tutte le Relazioni


Link al mio blog su Wordpress (tutte le relazioni)

Presentazione "Il Giallo e l'Azzurro". Relazione di Gaetano Celestre


Buonasera a tutti.
Ringrazio il signor Di Rosolini e tutto lo staff della Galleria Dir’Arte, per avermi ospitato oggi. Grazie a Giorgio Ruta e la compagnia de Il Clandestino per quella che è stata ben oltre una mera collaborazione. Grazie a tutta la stampa e gli amici, presenti e non presenti, partendo dal caro Michele Paolino di Post Scriptum, Carmelo Riccotti la Rocca di Novetv, Salvo Micciché di Ondaiblea, Adriana Occhipinti e Valentina Raffa per La Sicilia, Elisa Ragusa di Ragusa Oggi, Patrizia Gariffo de La Repubblica, Angelo Schembari de Il Giornale di Ragusa ma soprattutto – e lo cito infondo solo per i motivi che poi spiegherò nella mia breve relazione – il giornalista, scrittore, amico, Giuseppe Nativo, vero artefice della riuscita comunicazione di questo evento. Dire che si è fatto in quattro sarebbe un eufemismo, ma anche se la suddivisione fosse stata in più parti non potrei comunque affermare la sufficienza della quantificatrice locuzione metaforica. Grazie ancora una volta a Giuseppe Nativo.

Ringrazio per la loro presenza gli amici e soci del Centro Studi Feliciano Rossitto di Ragusa, gli amici in generale, la mia ragazza Irene e ovviamente i parenti più stretti.

Somma gratitudine e riconoscenza ai miei correlatori:
Cominciando dal carissimo Giorgio Sparacino che oggi mi ha onorato della sua arte, elevando le mie parole scritte ad un livello che era insospettabile quando furono riportate su carta.

Mi onora della sua presenza, ma soprattutto delle sue parole e della competenza, la giornalista e scrittrice Angela Allegria. E colgo ancora una volta occasione per esprimere riconoscenza a Il Clandestino.

Il caro Guglielmo Pacetto, penna elegante e acuta nel dettaglio, amico e collega di collaborazione sul blog Post Scriptum, più che un blog un vero Progetto. Conosciuto presso le incanutenti aule universitarie di Giurisprudenza, come del resto la stessa cosa si può dire per il vero organizzatore di questa Presentazione, l’amico carissimo Giovanni Denaro. Se Giuseppe Nativo è stato impagabile nel predisporre la sua rete informativa, senz’altro essenziale è stata la pianificazione messa in opera da Giovanni. Per non parlare ovviamente, della raffinata poetica del suo scrivere, l’eleganza del suo ritrarre la situazione socio-politica, la filosofia che riesce ad esprimere in poche pennellate di inchiostro da stampante. Se oggi sono qui è solamente grazie a lui.

Bene, spero di non aver dimenticato nessuno… anche se so che probabilmente è così! Come sempre qualcosa sfugge, ed è sempre qualcosa di importante. Passo alla mia relazione.

Sarò breve… come disse Tolstoji al suo editore, presentandogli “Guerra e Pace”.

 
Presentazione “Il Giallo e l’Azzurro” Modica 10/03/2012
“Come in basso così in alto”
di Gaetano Celestre
(http://gaetanocelestre.wordpress.com/)


Sicut inferius sic superius: se qualcosa resta di veramente importante da quegli alchemici insegnamenti contenuti nel Corpus Hermeticum del Trismegisto, è la fondamentale regola esistenziale che scaturisce da una visione in chiave più simbolica che letterale, al limite letteraria! Come in basso così in alto e viceversa…tuttavia non essendo venuto qui a dar cenni di esoterismo spicciolo, mi conviene spiegare subito a cosa mi riferisco:  secondo me non c’è poi grossa differenza tra “intelligenza” e “imbecillità”, tutto qui in fondo. In una recente presentazione pugliese ho dichiarato che Dio è un po’ cretino, fondandomi sul fatto che costruisce le montagne in roccia e non in cemento armato, come farebbero i nostri migliori architetti. Da allora, non essendo ancora stato fulminato, ritengo che Dio abbia compreso ciò che volevo dire e parzialmente magari approvato. Mi pare che suo figlio stesso se ne andasse in giro per la Galilea, sollecitando increduli e scandalizzati personaggi di alto rango, a cercare il suo volto divino in quello degli emarginati, ad esempio. Certo il cretino non si può dire che sia propriamente un emarginato, considerato che spesso siede in posti di potere. Sulla stoltezza divina, vi ricordo che sempre un uomo religioso, Rabelais, in un passaggio della sua mirabile opera, faceva sì che Panurge - dopo aver interrogato i sapienti e restando ancora indeciso se sposarsi o meno - ponesse i suoi dilemmi al cospetto della ragione di un folle. Salomone dice che infinito è il numero dei folli; e all’infinità non si può togliere né aggiungere nulla.
Se Dio è l’esempio più alto, il suo correlativo più basso potrebbe esser benissimo un cretino qualsiasi, un incapace, anche un inetto come Zeno Cosini. Non il principe delle tenebre, che vedo più come un ex dipendente messosi in proprio. Il cretino, o l’inetto, in balia del Caso, di quella corrente che sempre scorre più filosoficamente che mai, somiglia molto ad altro personaggio del Gargantua e Pantagruel, un giudice - da sempre apprezzato per le sue sagge decisioni - che sul finir della carriera viene scoperto nel metodo di giudizio, cioè il lancio dei dadi. Qualcuno avrà da recriminargli qualcosa per il suo passato? Bisognerà invocare la responsabilità civile? Ci si può chiedere: “ma a manu ri cui hamu statu?”, senza dubbio! Ma fatto sta che quel magistrato, aveva giudicato sempre bene… Il dubbio diviene così etico, e dunque mi tolgo subito da questo ambito per non cader nel moralismo. Anche se non me la sentirei mai di giustificare un fine terreno, pur raggiunto con mezzi divini. Per il fine divino - mezzi umani o ultraterreni che siano - se la veda il Consesso Olimpico.
Come faceva il giudice a ‘nsirtalla sempri? Dalle nostre parti si dice che Dio aiuta sempre bambini e stupidi. Solo che noi questo aiuto non riusciamo a riconoscerlo, o non credendo nelle divinità, rifiutiamo l’idea che ci sia qualcuno – dotato di caratteristiche soprannaturali - che intervenga in favore di altri. E allora, in tal caso, la giustezza di un comportamento di un cretino qualunque dipenderà, per forza di cose, dalla compartecipazione del Caso. Passo avanti:
Ergo, dai vari sillogismi posti in essere alluvionalmente, ne vien fuori che siamo tutti sotto le ali del Caso. Non andrò oltre nello spiegarvi che per il mio senso religioso, tale Caso è solo l’ennesimo travestimento del Fato, o almeno lo spero un po’ sempliciottamente a la Pascal-da insegnamento liceale.

Ricordavo recentemente ad alcuni amici, che uno degli attacchi più importanti posti in essere - per via letteraria - al genere “giallo” così come lo conosciamo, ha paternità tra le idee di Durrenmatt. Il grande scrittore si lamentava della consequenzialità eccessiva degli intrecci nelle storie poliziesche (Vd. La Promessa). Assurdità del tutto umana questa, accertata l’incongruenza logica della quasi totalità degli accadimenti terreni.
L’intervento del Caso – comunque lo si voglia intendere - è essenziale per capire le dinamiche di investigazione di Piero Menardo, il personaggio principale del mio romanzo. Un metodo del tutto simile, ma per via inconsapevole, a quello olistico di Dirk Gently, protagonista di La Lunga Oscura Pausa Caffè dell’Anima di Douglas Adams. Gently crede fermamente che ogni tipo di evento, tutti gli eventi, siano correlati ed in dipendenza stretta tra loro. Faccio un esempio: per sapere se avremo mai un buon governo eletto, in Continente, pur non volendo in ogni caso andar più a votare, si può cercare la risposta deducendola da un evento apparentemente non collegato direttamente, come l’involuto atto di pestare un consistente escremento fresco sull’asfalto. In effetti, il discorso è anche supportato in Fisica da dotte teorie. Nota è la storiella della farfalla che batte le ali dall’altro capo della Terra e di come lo spostamento dell’aria conseguente possa causare un ciclone nella parte opposta. Con tale metodo di inchiesta, Dirk Gently cerca di risolvere i suoi casi. Lo fa consapevolmente…
Menardo invece vi si trova in mezzo - in balia degli eventi - e senza rendersene conto arriva comunque allo stesso risultato di Gently. Si ammetterà che il mio Menardo è molto più cretino di quello di Adams.

Piero Menardo è un investigatore privato che ha conseguito la licenza da detective su internet, è uno che non trova lavoro o che comunque non vuole lavorare perché non gli piacciono i mestieri che gli propone questa frenetica società dei nostri giorni. È anche un po’ cretino, c’è poco da fare, ed il suo metodo d’indagine è un tantino opinabile. Il riferimento diretto del mio Menardo va cercato comunque tra le pagine di Borges. Il Pierre Menard di Borges, lasciandosi dettare le parole dal Caso, vuole riscrivere il Chisciotte, così come lo scrisse Cervantes, parola per parola, ma – sempre parola per parola - dotandolo di un nuovo senso. Lo scrittore argentino dice: Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell’originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de Cervantes. Si tratta dunque di un lavoro che va a collegarsi direttamente al mondo della metafisica e dell’iperuranio platonico, cose che in ogni caso lasciano al Caso la corrispondenza delle parole di Cervantes con quelle utilizzate da Menard. Perché uguali dovranno risultare alla fine di questo lavoraccio inutile. Il mio Piero Menardo persegue la soluzione della sua indagine utilizzando un metodo in tutto e per tutto analogo, inconsapevolmente, come già ribadito. Se Bagni Achei era il libro delle follia momentanea che giustifica l’incapacità di intendere e volere. In Il Giallo e l’Azzurro resta l’incapacità strutturale ma l’Intenzione e la Volontà non sono affatto assenti. Sono inconsce intenzioni, probabilmente, ma sostengono comunque la condizione di imbecillità.

Inconsapevolmente cretino, si potrebbe dunque dire di Menardo (come di Menard), come per la più alta percentuale di Noi cretini, che già credo maggioranza siamo nell’universo tutto.
Quale significato diamo al termine cretino? E conseguentemente come distinguiamo il cretino da chi non lo è? Nel dubbio, io comprenderei nella categoria persino tutta l’umanità, non si sa mai! Esiste qualcuno che in vita sua non ha mai commesso una stupidaggine? Anche un qualcosa che non è stata vista da altri e resta segreta, nei recessi più pungenti della auto-coscienza???

Filologicamente parlando, partendo dall’etimologia di “cretino”, una delle tesi che va per la maggiore ritiene che la parola possa derivare da christianus, in francese chretien, persino nome di persona (ricordo Chretien de Troyes). Termine abbastanza simile a crétin (cretino), senza dubbio. Il cristiano, inteso come spirito semplice e ingenuo (si dice, un “povero cristo”). Oppure, dal punto di vista pagano, il cristiano come stolto e assorto nella contemplazione di misteri uni e trini o roba simile. Stupefatto (da Stupeo, stessa derivazione di Stupidus), inebetito da questi dogmi inspiegabili.
Mi rendo conto che giungere ad una soluzione condivisa è cosa impossibile. Ed è un bene che sia così, poiché come spesso mi è capitato di ripetere, è più probabile che la Verità si trovi nella contraddizione che non in una sola asserzione.
Si potrebbe tentare di fare un elenco di cretini, o almeno quelli che riteniamo tali nelle più diverse accezioni, e poi provare a costruire in un sistema probabilistico, dei raffronti di media o qualcosa del genere. Roba da matematici, come Carlo Maria Cipolla, che nel ’76 pubblico una Teoria sulla Stupidità della quale mi piace ricordare le prime due leggi fondamentali:
1)      Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione.
2)      La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della persona stessa.

Fruttero e Lucentini ne saranno stati influenzati certamente per il loro La prevalenza del cretino del 1985. Lo leggo soprattutto nella asserzione: Il cretino è imperturbabile, la sua forza vincente sta nel fatto di non sapere di essere tale…
Sensatamente in linea Sciascia, in una intervista risalente al ’79: è ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino.
L’elenco, la lista dei cretini del mondo culturale, mi sembra una cosa divertente da fare, così, sommariamente perlomeno, cominciando da Cervantes: se Don Chisciotte è folle, di sicuro Sancho Panza è un po’ stupido. Rimanendo ai cavalieri erranti - nel senso di cavalieri che errano in quanto sbagliano – il mio amato Orlando Furioso raccoglie moltitudini impressionanti di imbecilli, a partire da Orlando stesso, con i suoi occhi strabici. Niente contro chi è affetto dall’imperfezione di Venere, ma senza dubbio lo strabismo fa parte nell’iconografia classica dell’immagine-tipo del sempliciotto. Si pensi ai molti personaggi di Tognazzi. Ma andiamo avanti: l’opera di Rabelais è stata già citata; Candide è un cretino, ma ancor più cretino è quel tutto-lingua di Pangloss che cerca di convincerlo di quanto sia bella e da guardar con ottimismo persino la sfiga più nera e continuativa. Da altro punto di vista, più vicino a quello di Pangloss e del mondo progredito, perfetti cretini sono gli abitanti di Eldorado, che pur vivendo in mezzo alle ricchezze, non le degnano di interesse, pur di vivere tranquillamente, in pace. Un po’ scemo è Socrate, uno che fa la réclame per una nuova bibita: “Bevi Cicuta, e salvi Atene dal Default!”. Poteva fuggire e non lo fece, un cretino! Platone non meno di lui, che poco diligentemente si recò da Dionigi di Siracusa per consigliargli una sorta di sua abdicazione in favore della Repubblica. Ma che si aspettava? Dionisio che spalancava le braccia e gli diceva: “prego, fa pure, o grande pensatore, che io me ne vado a mare a farmi un bagno!”? E poi c’è Giona che tenta la fuga pur conoscendola impossibile, viene ingoiato da una balena come Pinocchio e alla fine vaticina qualcosa che poi il suo Dio non fa avverare. C’è quella credulona di Medea, Paperoga, Plutarco che viene dalla Beozia ed è dunque Beota, Thoureau che vuol andare a vivere nei boschi avendo il sogno americano tra le mani, Fetonte che dà fuoco a mezzo cielo perché non ha la patente e decide di guidare lo stesso il carro di suo padre. Il vecchio a mare di Hemingway che si è fissato con un pesce, come il Capitano Acab d’altro canto. Don Ferdinando Uzeda, il babbeo, che tra alberi piantati al contrario e altri strambi esperimenti agricoli, è in fin dei conti il meno stolto di tutta la sua famiglia. Il giovane Holden, che è il simbolo di certa stupidità statunitense di ogni tempo. Le Mille e Una Notte, bellissimo libro infinito, coacervo di personaggi cretini. Il Barone Rampante è un idiota, alla luce del nostro urbanizzato stile di vita. Dostoevkij dichiara le idiozie sin dal titolo. Filottete è un cretino, viene abbandonato su un isola perché gli puzzano i piedi - Odisseo aveva il naso fino - poi quando si scopre che gli Achei non avrebbero mai potuto vincere a Troia senza di lui, allora vanno per richiamarlo. E lui che fa? Accetta! Imbecille, bisognava mandarli a quel paese, a questo punto. Paride, a causa delle sue tante imbecillità, non meritava altro che la morte per mano di Filottete, mi sembra chiaro. E di dubbi sulla stupidità di Sherlock Holmes ne sono stati posti parecchi, nel corso degli anni. Watson gli risolveva i casi – cosi si dice – ma i meriti se li prendeva il tossicomane. Chi è più scemo? Arnolp Archilocos, che si fidanza con una prostituta e comincia una magnifica scalata sociale senza capacitarsi del perché; il Mulo di Asimov che si maschera da cretino per governare l’Universo controllando le menti degli altri; i pompieri di Ray Bradbury che bruciano libri; il bianconiglio, sempre di fretta; tra gli eteronomi di Pessoa, il principale mi sembra il più genialmente deficiente (soprattutto nella fase in cui si presentava dalla fidanzata Ofelia Quieroz dichiarando per quella sera di essere altri); Don Abbondio è un cretino rispettabilissimo (molto meno scemo e antipatico dei due innamoratini, intendiamoci), lo ammiro e provo le stesse invidie del Manzoni; Eraclito scrive solo per l’elite letteraria e gli altri evidentemente siamo tutti scemi; Giufà o l’intero circolo di Pickwick che è composto da gentilissimi e divertentissimi cretini; la zia Maria dell’Ora di Rosolini ed il cavalier Formica che riuniva in sé il principe azzurro, il barone, il prefetto, l’avvocato e l’impiegato al municipio. Più un mulino, tre ettari sott’acqua, cinquantasei ettari di carrube e una casa palazzata. Ovviamente la “saggezza” con le virgolette dei 39 anni glielo rendeva persino affascinante; A Ciascuno il Suo si conclude con l’asserzione: Era un Cretino! Musil parla del regno della saggezza come di una regione desertica e in genere schivata dagli uomini. Umberto Eco dedica al tema una più o meno breve/lunga disquisizione, magistralmente particolareggiando sul significato e le differenze tra i termini: cretino, stupido, imbecille e matto. Un intero capitoletto – il decimo della Terza Parte, Binah, del Pendolo di Foucault – ricordo sinteticamente il pensiero di Belbo: “Chiunque, a ben vedere, partecipa di una di queste categorie. Ciascuno di noi ogni tanto è cretino, imbecille, stupido o matto. Diciamo che la persona normale è quella che mescola in misura ragionevole tutte queste componenti, questi tipi ideali.
Non a caso tutte queste citazioni, ci s’intenda, come ha detto il giornalista e critico d’arte pugliese Marino Pagano, Il Giallo e l’Azzurro è un libro che contiene altri libri. Il dubbio principale, tuttavia, dopo questo breve elenco, è sempre quello: cosa s’intende per cretino? Ci sono cretini buoni e cretini cattivi? Cosa si intende per buono e cattivo?  Nel dubbio c’è una certezza: in un racconto di Borges due teologi che per tutta la vita si sono osteggiati, al momento della morte vengono – l’un con l’altro - nell’identità, confusi da Dio. Temo che l’errore si ripeterà ancora, quando il cretino si presenterà di fianco all’intelligente.
Sicut inferius sic superius.

Gaetano Celestre

Presentazione "Il Giallo e l'Azzurro". Relazione di Giovanni Denaro


Su Il giallo e l’azzurro di Gaetano Celestre
e altro ancora.
l’attualizzazione del mistero divino e l’esigenza di scrivere in Sicilia.

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Doveroso incipit, ancora una volta.
Come per la presentazione di Bagni Achei, primo romanzo di Gaetano  al quale ci stiamo adesso inevitabilmente riallacciando, anche per la presentazione relativa a Il Giallo e l’Azzurro  sono stato alla ricerca di un prologo significativo, di un antefatto che mi fornisse lo spunto per iniziare a pensare e a scrivere di esso.
Ed il pensiero si è arenato su una circostanza o, per meglio dire, su di un’immagine: Gaetano ed io che, in una delle mie solite trasferte a Scicli, in una fredda giornata di Gennaio scaliamo il colle S. Matteo per arrivare fino alla parte più alta e, da lì, letteralmente, dominiamo con lo sguardo l’intera Scicli. Il vento ci coglie alle spalle mentre tento di cercare, nell’immenso mare che mi si staglia davanti, i blu che il maestro Guccione prende in prestito per i suoi dipinti. Ecco, da qui partiamo e qui ritorneremo, in un modo o nell’altro.


De “Il Giallo e l’Azzurro.”  introduzione ai temi
Il Giallo e l’Azzurro. Secondo romanzo di Gaetano Celestre, pensatore e scrittore sciclitano che, a circa due anni di distanza dall’esordio con lo scomodo e profondo Bagni Achei, ritorna su suoi passi di ottimo narratore consolidando, questa volta con un giallo, la sua personalità e il suo pensiero.
Siamo ancora una volta in Sicilia, in un’estate torrida come solo dalle nostre parti può essere. Piero Menardo, aspirante investigatore privato,  seduto nel suo nuovo ufficio da detective, aspetta , rigorosamente in giacca e cravatta, che qualche cliente bussi alla sua porta e dia un senso a quella che non può non apparire come una scelta lavorativa quantomeno bizzarra. Il giovanotto è affiancato, in questa nuova avventura, dall’amico e già compagno di liceo Carmelo Passatempo. L’empasse lavorativo, in cui inevitabilmente può incappare uno studio investigativo che apra i battenti in un piccolo paesino di provincia, sembra essere improvvisamente interrotto dalla misteriosa sparizione di alcuni gatti cui seguirà, qualche giorno dopo, un ben più rilevante fatto di cronaca nera, l’omicidio di tale Salvatore Lestrigone, conduttore di un locale programma di intrattenimento televisivo.
Quasi in parallelo, o forse quasi in disparte, sicuramente in sordina e con toni più ermetici e  di certo più carichi di simbologia rispetto alla storia principale, si sviluppa, in seno al romanzo, una sorta di mini rappresentazione, in forma comica e surreale, di un incontro tra due soggetti non meglio identificati. Due personaggi che si incontrano per caso, in strada, e che vengono descritti in maniera essenziale, addirittura di uno tacendosi anche il nome, indicandolo come quello con voce grossa e grassa, l’altro invece individuandolo come tale Giorgino Cola. Gli sparuti capitoli ad essi dedicati, disseminati quasi senza criterio tra quelli relativi al filone principale del romanzo, aprono una finestra secondaria sull’immaginario del lettore, un canale di dialoghi surreali ed immagini ai limiti del grottesco  che ampliano il tono e lo spirito del romanzo. Se da una parte si procede quasi con regolarità e prevedibilità nell’iter di indagini e accadimenti che caratterizzano lo sviluppo dei misteri indicati sopra, il binario parallelo che si apre a latere del giallo arricchisce l’opera tutta di significati ancora più curiosi.
Come per il già citato Bagni Achei, che l’autore stesso si diverte a citare più volte nel corso del racconto, anche in questo caso la narrazione costituisce il mezzo e non il fine, questa volta per arrivare non già alla posizione di domande ma finalmente per stringere tra le mani una risposta. O più risposte, se vogliamo.






Del “problema del lavoro” e di finestre sempre aperte.
Procediamo con ordine, essendo molteplici i temi da trattare. Questi verranno snocciolati quasi con effetto domino, essendo ciascuno irrimediabilmente legato a quello successivo secondo un’unica catena di parole. La prima rappresentazione che ci deriva dalle pagine del romanzo è quella relativa alla figura del giovane siciliano tipico. Tanto il protagonista Piero Menardo, quanto il Giorgio Cola che alberga in quelle pagine misteriose che sono queste parentesi di apparente non sense, vengono dipinti come ex liceali in cerca di lavoro.
Ecco la presentazione di Giorgino Cola: “ il Cola è l’ennesimo sfaccendato di questa storia. Ma solo nell’animo, perché purtroppo- almeno a suo modo di vedere- almeno lavorava.” Ma qui siamo in presenza di una contraddizione! Così si può giustamente asserire ad una prima lettura; ed effettivamente la circostanza potrebbe apparire tale a colui il quale non ha occhi per vedere al di là dei campi di grano: che cos’è il lavoro? “U travagghiu”, così meglio identificato, viene introdotto all’interno del racconto dall’autore diventandone gradatamente elemento portante,  inteso come strumento di coercizione delle esistenze umane le quali vengono oltremodo allontanate dalla bellezza di esistere per seguire la falsa promessa del benessere.
Ed è sintomatico che tutti i personaggi presentati dall’autore vengano subito individuati con nomi bizzarri, che alludono alle proprie abitudini di vita- si pensi a Carmelo Passatempo, e descritti anzitutto nella loro posizione lavorativa. Ciò che l’autore vuole dirci è che oggi ci troviamo a pagare il prezzo di un meccanismo sociale più grande di noi  che controlla il nostro umore in cambio del nostro tempo. E questa è una sofferenza tipica, direi quasi esclusiva di noi siciliani e di chiunque abbia la piacevole abitudine di perdersi, lungo minuti che nell’ordine dell’infinito appaiono secoli, affacciato da finestre irreali che ci riportano alla Bellezza della nostra terra. Ecco spiegato il malessere di Cola che sembra quasi vergognarsi della sua occupazione. E a proposito di finestre irreali, scrive Tabucchi nel suo romanzo epistolare, Si sta facendo sempre più tardi: “Le finestre a volte non hanno imposte,  si aprono su orizzonti ben più larghi di quelli reali.” Così, nel tentativo di cogliere la bellezza dietro ogni anfratto, nel quotidiano soffiare del vento di scirocco sulle spiagge di Sampieri e di Cava d’Aliga, si apre una visione della realtà ampia ed inspiegabile. Ecco l’autore così arrivare al tema cardine del romanzo, introdotto surrettiziamente, secondo quel gioco dei temi che si rincorrono cui accennavo sopra: cos’è che sfugge all’occhio? Cosa spiega l’accidente? Cosa ci governa? Siamo effettivamente guidati da qualcosa? C’è una realtà che non cogliamo ma che sperimentiamo ogni giorno e che giustifichiamo come evento casuale. Significativo è a tal proposito questo estratto da “Se in una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino che bene rende l’idea di questa percezione dei sensi:
“Ci sono giorni in cui ogni cosa che vedo mi sembra carica di significati:
messaggi che non sarebbe difficile comunicare ad altri, tradurre in parole
ma che appunto perciò mi si presentano come decisivi.

Ridere dell’assurdo: l’autore e il suo rapporto con l’in(de)finito.
C’è un tono di confidenzialità che caratterizza il dialogo costante dell’autore con il lettore. C’è una sensazione di immobilismo, come se l’aria fosse densa, come se i ragionamenti del nostro giovane detective fossero inesorabilmente calati nell’umida calura estiva e non riuscissero ad emanciparsi. Ad esprimere questo concetto concorre ogni singola parola spesa. Chi racconta appare discreto ma non troppo, risulta presente ma mai invadente ed accompagna progressivamente il lettore lungo gli sviluppi relativi all’omicidio e alla scomparsa dei gatti, utilizzando  uno stile sempre ironico e pungente, a tratti esilarante, con toni goliardici e provocatori. L’opera, prima ancora che l’autore, chiarisce l’eventuale inganno: siamo qui per ridere! Per quanto la storia possa acquisire tratti anche drammatici, il rimedio ad ogni problema è offerto da una sana risata. Di fronte all’assurdo di un uomo trovato assassinato nella vasca da bagno trafitto da una spada di pescespada, di fronte a debordanti seni di signore un po’ attempate e di aspiranti detective che non scorgono neanche l’ovvio, l’autore propone la soluzione più gioviale e al contempo meno dispendiosa. Abbiamo tra le mani una lettura funzionale a suscitare grasse risate in chi ama prendersi troppo sul serio e che soprattutto guarda alla vita come se fosse un affare serio, un problema da risolvere, un nodo da sbrogliare. Ma si tratta di un incastro incomprensibile, senza logica, rispetto al quale l’atteggiamento prevalente e forse più intelligente è per l’appunto quello di chi, preso atto del folle ed inesplicato contesto in cui ci troviamo a vivere, si rilassa cogliendo il bello dell’esistenza e sorridendo dell’imprevisto. Ancora scrive Tabucchi: “Come vanno le cose, e cosa le guida: un niente.”
Fermiamoci un attimo e rilassiamoci. Anche la descrizione della stagione estiva e del caldo umido concorrono a delineare un senso di rassegnata meditazione sull’ormai acquisita consapevolezza del mondo e del suo ciclico divenire: la stagione estiva diventa simbolo di stasi e le nuvole che si acquattano sull’orizzonte, quando il sole tramonta nei caldi pomeriggi agostani, addormentano il nostro corpo in questa sana consapevolezza.
Eugenio Montale ha dedicato tutta la sua poetica a questa sensazione di indefinibile inquietudine.   

Il “circo dell’Umanità”.
Ancora, il tema del popolo visto come immensa giostra delle debolezze e delle nefandezze umane. La prosecuzione delle indagini da una parte, condotte dal Menardo ed affidate più al caso che non ai suoi meriti,  e il siparietto surreale dall’altro, con Giorgio Cola e il suo interlocutore, costituiscono il pretesto, per l’autore, per concentrarsi su di una variopinta descrizione della sicilianità  popolana.
Ne derivano quadretti di vita quotidiana vissuta dietro finestre semichiuse o, viceversa, di vita consumata per strada, arsa dal sole e che si insinua tra vicoli e ponticelli, una grande parata di personaggi “umani” descritti con tocchi da commedia all’italiana, tutti inseriti in questo grande calderone che sembra ricordare tanto certe descrizioni in musica fatte da Bob Dylan nel lungo, surreale , epico affresco urbano di Desolation Row. Ecco presentarsi il grande circo dell’umanità, condensato in un piccolo paesino di provincia, tutto trafelato perché alle prese col programma televisivo del sabato sera, col pettegolezzo del vicino di casa omosessuale, con la puntualità di certe soap opera e di certi spot pubblicitari, tutti impegnati nella morbosa descrizione dell’omicidio del mese, tutti indifferentemente affaccendati in un’ipocrisia apparentemente inguaribile che ci vede tutti moralisti, perbenisti e sicuri del giusto delle nostre azioni. E l’autore, Gaetano Celestre, prendendosi la briga di descrivere cotanta insistenza e vanità dell’azione umana, rinuncia all’assurdo sforzo di capire l’inesplicabile e si affida pertanto al dato della vita condensato nella contemplazione della bellezza che si vede ( il giallo e l’azzurro), nella descrizione dell’incomprensibile che si coglie oltre ( Dio, o chi per lui), nella consapevolezza acquisita che il mondo è vivo perché sfugge ad ogni logica, ad ogni dinamica. Il caso ci governa. Ancora una volta, però, come già per il precedente Bagni Achei, la consapevolezza diventa onere. Significa farsi carico di cose incomunicabili le quali albergano solo in chi sa cogliere, oltre il giallo e l’azzurro, l’inconcepibile della ragione; costui si trova a stretto contatto, ed in ciò sta l’incomunicabilità, con una società fatta di stereotipi e luoghi comuni che altro non sono se non la comoda casa cui ogni sera fanno frettoloso e nervoso rientro i bisognosi di verità accomodanti e di moralità da sfoggiare. Ecco l’approdo cui arriviamo. 
La realtà si manifesta quasi a nostra insaputa: mentre Giorgio Cola si intrattiene col suo interlocutore, il vero della vita si manifesta sopra le loro teste, con volatili pronti a dire la loro, lungo la stradina al loro fianco dove si scorge addirittura un gatto senza stivali,  su di un muretto a secco in un caldo pomeriggio estivo, il tutto descritto attraverso i toni dell’irrazionalità. Siamo dalle parti di Lewis Carroll e di Alice nel paese delle meraviglie.  I due personaggi, Giorgio Cola e il suo misterioso interlocutore,  si scambiano in parole le loro esperienze mentre tutt’intorno la realtà si manifesta. “La vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri progetti”, scrisse John Lennon. E mai frase risulta più appropriata. Attraverso la Letteratura, l’autore trasfigura la realtà individuandola necessariamente in qualcosa a noi esterno ma cui comunque apparteniamo secondo una logica-non-logica che sconosciamo ma che deve comunque vederci partecipi, prendendo la vita in maniera elastica, come indica lo stesso autore, quasi a voler evitare equivoci sulle giuste modalità di abbraccio a questa esistenza. E a sostegno di quanto scritto dall’autore, riporto adesso un piccolo brano, estrapolato dal mini saggio Setacciare le ceneri dello scrittore statunitense Jonathan Franzen, che dà maggiore significato a quanto detto finora:
“La morte è una rottura del legame fra l’io e il mondo, e dato che l’io non può immaginare di non esistere, forse ciò che rende davvero spaventosa la prospettiva di morire non è la scomparsa della coscienza ma la scomparsa del mondo. (…) E il potenziale di morte insito nelle sigarette era confortante, perché mi permetteva, in pratica, di acquistare familiarità con l’apocalisse, di conoscere i contorni di quel terrore, di rendere la potenziale morte del mondo meno strana e quindi un po’meno minacciosa. Il tempo si ferma per la durata di una sigaretta: quando fumi, sei acutamente presente a te stesso; esci dallo scorrere affrettato e inconscio della vita. Ecco perché ai condannati a morte viene concessa l’ultima sigaretta, ecco perché (o almeno così si narra) mentre il Titanic affondava, i signori in abito da sera si affacciavano al parapetto con la sigaretta in bocca: è molto facile lasciare il mondo se sei sicuro di esserci stato. Come scrive Goethe nel Faust:
« abbiamo il dovere di essere presenti anche solo per un istante.»

Il dubbio come certezza.
Eccoci così giunti alla fine di quest’esperienza.
Piero Menardo riuscirà a trovare la soluzione al mistero dei gatti scomparsi e alla morte di Lestrigone per puro caso, quasi senza rendersene conto.
Le spiegazioni appariranno come scoperte casuali e nell’incastro tra romanzi, questo e il precedente Bagni Achei, verranno fornite soluzioni sia al primo, romanzo dalle domande insolute, che a questo secondo scritto. L’autore scrive un proclama di vera e propria rinuncia al pregiudizio e al giudizio affidandosi, nelle sue esperienze di contatto con la realtà, al corso dell’esistenza quale unico metro per valutare, ex post, la giustezza di ciò che in origine si ritiene o giusto o corretto. La vita è guidata dal caso, che equivale a dire che non è guidata per nulla, come l’improvvisazione guida la musica Jazz. Scrive ancora Tabucchi ne Il tempo invecchia in fretta: “Credo di aver capito una cosa, che le storie sono sempre più grandi di noi, ci capitarono e noi inconsapevolmente ne fummo protagonisti ma il vero protagonista della storia che abbiamo vissuto non siamo noi, è la storia che abbiamo vissuto.”
Calano i sipari dettati dalle parole preconfezionate. Nessun mito, nessuna ipocrisia. L’attualizzazione del mistero di Dio e dell’Esistenza tutta rappresenta lo spunto più importante che possa spingere uno scrittore a prendere la penna e sedere ad una scrivania. In Gaetano tale mistero si traduce nella quieta contemplazione del sublime, composto disordine della Natura.
Il Giallo e l’Azzurro, pag. 42:
“ Il sole in quel momento però si velò di sabbia e un caldo vento di deserto bruciò le gote dei due loquaci amici. Ecco come il giallo deserto siciliano si espandeva sugli Iblei. Un giallo di morte geopsichica.
L’arsura degli sterpi che gridano e talvolta sono mal compresi da chi con poca acutezza ritiene sia quella una visione quasi festante. Ma che stupidaggini dico? In effetti, cosa c’è di male nella morte se questa non è la fine? Passaggio ad altro, ciclico passaggio festoso, potrebbe essere qualcosa del genere.
Per non parlare del paesaggio. Quello sterminato mare di bionda sterpaglia che cerca l’azzurro mare per far felici gli occhi di qualunque mortale. L’azzurro di un mare che non ha interruzione all’orizzonte e continua con uguale tonalità nel cielo terso. Amalgama di colori a olio, questa è la vita. E in Sicilia si caratterizza per il giallo e l’azzurro. Una festa di rinnovamento, un contesto dove l’uomo ben poco interviene, immobile nel pensiero ma soprattutto nell’agire, infangato nel suo ipocrita conservatorismo reazionario.”

Proprio perché trattasi di un giallo non posso spingermi oltre nella descrizione degli accadimenti che nelle ultime pagine precipitano in un finale ricchissimo di interpretazioni.
Preciso solo questo. La Sicilia diventa, nella sua geografia così unica, il luogo in cui calare tutti i pezzi di questo racconto; qui e solo qui, dove bellezza e difficoltà si sposano così naturalmente, troviamo il luogo prediletto per codeste riflessioni sul vivere e sul non vivere, sul pensare e sull’agire. Qui la Bellezza ci tiene in ostaggio in ogni nostra azione o pensiero.


Ritorniamo al nostro incipit.
Con buona pace di tutti i preconcetti diffusi, coltivati strenuamente contro la Sicilia e il Mezzogiorno, non ultimo il fortissimo pensiero antimeridionalista del recentemente scomparso Giorgio Bocca, che in uno dei suoi ultimi interventi televisivi fece addirittura un pubblico incitamento all’Etna perché si ravvivasse e facesse ampio sfoggio della sua potenza distruttiva, “W l’Etna”,  colgo l’occasione per elogiare la nostra Terra di Sicilia cui risulta inevitabilmente dedicato il romanzo di Gaetano Celestre, perché la cultura possa trovare nella stessa un sempre costante motivo di ispirazione nonché terreno fertile per far attecchire ancora tanta altra letteratura a venire, e con ciò mi riallaccio all’introduzione di qualche pagina fa per chiudere il cerchio di questo discorso.


Giovanni Denaro, Modica.
Gennaio 2012.