sabato 17 aprile 2010

Tutti gli interventi svolti durante la presentazione di "Bagni Achei". Ragusa 16 aprile 2010. Presso il Centro Studi Feliciano Rossitto. Parte 2


Qui di seguito riporto tutti gli altri interventi svolti durante la presentazione:

“Bagni Achei” un libro di Gaetano Celestre
A ritroso sulla rotta dei migranti,
di Giuseppe Nativo

La lettura di un libro (che consiste nello sfogliare e toccare le pagine; sentire l’odore dell’inchiostro) è sicuramente un’esperienza che in ognuno suscita sensazioni, considerazioni, fantasie e immagini diverse. Presentare un libro di narrativa significa anche compenetrarsi nella trama e cercare di scavare nel significato che l’autore vuole dare alla sua creazione letteraria. Tutto ciò significa non solo ricercare le “impronte” dell’autore, ma considerare anche il contesto storico e culturale in cui nasce l’opera letteraria. Parlare degli “altri” - che in fondo è il lavoro dell’autore - è anche un modo per rivelare qualcosa di sé.
E in questo non si è sottratto neanche Gaetano Celestre, di cui stasera ci accingiamo a presentare il libro.
Giovane studente universitario – gli piace dire di sé che studia giurisprudenza “a tempo indeterminato” – è appassionato di Jazz, Rock e blues ma anche di pittura. Gestisce un blog su rete internet da cui cerca di pubblicizzare ulteriormente ciò che fa. Oltre a queste attività coltiva l’amore per la scrittura nella sua assolata Scicli, “piccolo grande paese” della provincia di Ragusa, dove “orgogliosamente” vive, dove la musicalità latina e grazia araba si miscelano tra l’altero colle di S. Matteo e le spumeggianti acque di un mediterraneo senza tempo, e dove riecheggiano ancora urla saracene tra le rocciose torri un tempo dominanti le vallate di S. M. la Nova e S. Bartolomeo.
E’ proprio in questo scorcio di Sicilia, “…tra una pennellata di mare…” e “muri a secco a tinchitè”, che si dipana l’intreccio narrativo proposto col suo primo romanzo “Bagni Achei” (MJM editore, Milano 2009, pp. 136). Titolo enigmatico per alcuni versi, che resta inspiegabile sino alla fine del racconto, ma che lascia aperte non poche riflessioni su attuali e cocenti problematiche della società.

Nel volume di Gaetano Celestre intravedo tre livelli di lettura: uno socio-antropologico, l’altro etico e, non ultimo, narrativo. Tre livelli che si integrano nell’unità di una narrazione abbastanza efficace. Nel primo ambito emerge l’immagine di una “sicilianità” posta tra realtà e metafora (fortemente “contaminata” dalle conoscenze culturali e dal punto di vista dell’autore), nel secondo la coscienza critica dello scrittore che coglie i problemi profondi della società del nostro tempo (mi riferisco alle odierne grandi tematiche quali “politica e cultura” e “cultura e potere”, in particolare il nodo cruciale “scuola e cultura”), nel terzo, infine, affiora la tecnica letteraria dell’autore (con la quale attraverso un linguaggio ironico, talvolta graffiante, mette a nudo i paradossi del nostro tempo). Tre livelli, dunque, che sono fortemente presenti nel testo e che si compenetrano a vicenda.

La descrizione narrativa dell’autore è capace di rievocare con precisione la terra in cui vive, gli odori, i colori in un mirabile assemblaggio che può essere “gustato” come un dipinto.

Il pretesto narrativo è dato dalle vicende occorse a Gioacchino Ariodante - Iachino per gli amici - docente di storia e filosofia ed accanito “signorino” trentenne con Dna sciclitano, la cui vita, pur scorrendo “noiosa come quella di un’orata da coltivazione”, è percorsa da un galoppante decadimento depressivo a seguito di continue vessazioni subite da Santino Polinesso, un suo allievo, figlio di un noto e potente politico locale cui tutti devono qualcosa. “Elemento particolare”, questo suo studente, le cui ingenue e “giovanili intemperanze”, come li definisce la psicologa dell’istituto, lo costringono a picchiare continuamente “tutti i suoi compagni di classe e l’intero corpo insegnanti”. Il professore Ariodante è un docente che cerca di fare il suo dovere, ma trova un muro di gomma nel corpo insegnanti totalmente asservito al potere politico. Infatti, dal preside della scuola, in occasione della riunione dei docenti indetta per decidere quali studenti ammettere agli esami di stato (e tra questi anche l’alunno Santino Polinesso), è anche tacciato di essere “retrogrado, pericoloso, reazionario” nonché “rovina della nostra società” (p.16). E’ inutile dire che da quella riunione il nostro professore ne esce, per dirla con una espressione semi-seria di Gaetano Celestre, come “un ebreo che era stato a cena con Hitler” (p.16). In tale contesto il prof. Ariodante rappresenta, in un certo qual modo, la voce del dissenso
Nel prof. Ariodante si nota anche un certo sforzo per cambiare il modo di come vanno le cose. Un certo rifiuto alla rassegnazione. In Ariodante si può notare una sorta di “sicilinconia”, termine recentemente coniato da Piero Carbone, affermato poeta dialettale racalmutese. Con tale termine ha dato il titolo ad una raccolta poetica “Venti di sicilinconia”, un’opera che, nel settembre scorso (2009), la giuria del Premio Martoglio ha premiato. Il termine “sicilinconia” vuole marcare uno stato d’animo, “un sofferto cammino per le vie più intime della nostra coscienza per rilevare una delusione che più sociale è anzitutto esistenziale”. In Ariodante non è assente quel desiderio di uscire dallo stato di prostrazione.
Iniziano così le sue rocambolesche peripezie.
Accusato di un reato mai commesso, il professore inizia la sua fuga notturna su un gommone abbandonato da certi “scafisti” attraversando il canale di Sicilia. Quello di Iachino si rivela come un viaggio onirico, di omerica memoria, che dovrà “fare i conti col suo senso di Sicilianità”, ripercorrendo a ritroso le rotte dei migranti. Un viaggio che l’autore arricchisce con interazioni mitologiche ed incredibili teorie del complotto, con contorno di serio e faceto, tra dialoghi con un delfino di nome “Calamaro” e di professione ragioniere ed apparizioni del leggendario Cola Pesce, un uomo eccezionale che, secondo la leggenda, riesce a stare per moltissimo tempo sott’acqua, e che nel volume di Gaetano Celestre, prendendo quasi spunto da una moderna iconografia, è immaginato “per metà uomo e metà yacht”. La leggenda di Cola Pesce è diffusa in tutta la Sicilia ed in tutto il mondo mediterraneo, e di essa corrono numerose varianti (alcuni ne contano 40; quella di Gaetano Celestre penso che sia la 41^ variante!), sicché di questa leggenda si può parlare come una sorta di leggenda “nazionale” della Sicilia, per gli elementi culturali, storici e ambientali che vi si trovano. Una delle varianti della leggenda vuole che Cola Pesce si trovi ancora in fondo al mare, per sostenere una delle tre colonne, ormai pericolante, sulle quali, secondo la fantasia popolare, si regge l’isola. Tre sono le colonne, come tre sono le punte che delimitano la Sicilia. Da qui l’emblema stesso della nostra isola, detta appunto Trinacria, raffigurata dalla Gòrgone da cui si staccano tre gambe che si rincorrono quasi a simboleggiare il movimento. Ed è proprio questo movimento - inteso come spostamento, viaggio, esilio - che ha dato gli elementi ispiratori a Gaetano Celestre. Mi riferisco alla “fuga” di Gioacchino Ariodante.
“Era una fuga quella di Gioacchino?” (p.43). Se lo chiede anche l’autore, mentre il “fuggitivo”, indisturbato, “sparisce veloce ed agile come un cinghiale in una boccia di marmellata”! (p. 39).
Fuga, ma anche desiderio di tornare come afferma lo stesso protagonista, Gioacchino, nel corso della sua permanenza in una delle sue tappe: “Io adoro la Sicilia e non faccio che sognarla da quando sono partito” (p. 65).
Ma perché questo assillo?
A tale proposito mi piace citare tre riflessioni pubblicate sul quotidiano “la Repubblica” nel gennaio del 2005. La prima riguarda la scrittrice Dacia Maraini, la quale afferma: “La Sicilia è una terra molto intensa nelle sue contraddizioni, poetica e fortemente drammatica. Sono luoghi forti che si prestano al racconto. La nostra è una terra narrativa per eccellenza”.
La seconda riflessione è quella di Gaetano Tranchino (pittore apprezzato e lanciato nei circuiti nazionali dallo stesso Sciascia), il quale durante una mostra a Milano ebbe a dire: “Nessuno riesce mai ad andare davvero via, a recidere le radici. E quando scappano esasperati da tutte le storture e i disservizi che angustiano la nostra vita non fanno altro che cercare altrove quello che hanno lasciato o perduto in Sicilia”.
La terza riflessione è quella dello showman Rosario Fiorello che, in maniera più spicciola, afferma: “…E’ una questione di Dna. Anzi la sicilianità è peggio del Dna. Io da adulto ho vissuto ovunque tranne che in Sicilia eppure cerco l’ispirazione sempre nell’isola. La mia insularità mi sta addosso come una seconda pelle, non riuscirei mai a staccarmene. Siamo attaccati alla nostra terra”.
Anche Iachino, il prof. Ariodante, è attaccato alla sua terra e dovrà “comunque fare i conti col suo senso di sicilianità”, affrontando, in questo suo movimentato viaggio, le mille difficoltà offerte anche dal mare che, considerato il suo stato d’animo, si presenta nero, notturno e, dice l’autore, “scuro come il vino” (p. 66), (“color del vino…” come avrebbe voluto Leonardo Sciascia, espressione che l’autore ricorda nel corso della sua narrazione, ricorrendo alla formula cui attingevano i poemi omerici per descrivere il mare ed indicarne il colore).
E’ con questi espedienti, che Gaetano Celestre rende piacevole la lettura del volume, in cui i personaggi incontrati dal protagonista risultano incastonati in scenari grotteschi e paradossali di pirandelliana memoria: dal personaggio di Don Pietro (p. 48), il lampedusano pescatore di mezza età che suona il sassofono, a quello del tunisino Dhakir (pp. 84 - 88) che, sebbene sia laureato in fisica nucleare, è costretto, per le avverse vicissitudini della vita, a trovare lavoro “come venditore ambulante di adesivi per lattine di coca cola”, oppure all’arabo di nome Piergiorgio (p. 98) dalla parlata milanese (p. 97).
L’architettura narrativa è costituita da una scrittura che riproduce il ritmo e l’incanto dell’oralità, con le sue divagazioni, i suoi inciampi, gli improvvisi cambi di registro e di tono, dove tragico e comico, rabbia e malinconia si tessono continuamente tra citazioni classiche e cultura moderna (a tale riguardo è necessario fare presente che i nomi dei personaggi Ariodante e Polinesso sono tratti dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto; ma sono anche i protagonisti di un’opera in tre atti musicata da Händel nel 1735).
Quella di Celestre è anche una scrittura capace di rispecchiare fedelmente la vita, intrisa di “cospirazione” che lega – cito testualmente - il “Diritto Bancario a Mickey Mouse, i Templari al mondo della cosmetica” (p.43), in una società immersa in un mondo dalle mille contraddizioni dove - cito ancora - “mentre uno entrava in galera per aver rubato un pacco di pasta, un altro usciva dopo aver ucciso per un parcheggio” (p.43).

All’autore va anche il merito di aver usato un linguaggio attuale, inframmezzato da modi di dire e da frasi nella parlata locale evocante neologismi camilleriani.

Mi avvio alle riflessioni conclusive prendendo spunto da un particolare: ovvero da quello che ho definito “inciampo narrativo”… … …

Inciampo narrativo (da pag. 64)
Ad un certo punto del racconto Gaetano Celestre passa dalla terza persona alla prima. All’inizio la cosa mi ha un po’ disorientato. Poi ho fatto qualche riflessione in proposito.
Penso che si tratti di un artificio, forse un po’ rischioso.
Una sorta di “straniamento” e, se vogliamo, anche uno “scherzo” che l’autore fa al lettore. Il gioco consiste nel non saper più chi è “narratore” e “narrato”. In questo penso di aver interpretato il ragionamento di Gaetano Celestre: se in Gioacchino c’è parte del narratore, a cosa serve il narratore? Può narrare benissimo Gioacchino, forse meglio, poiché sta vivendo la sua storia in prima persona. Mi sorge il dubbio, che conservo ancora oggi, se ci sia più Gaetano nel narratore o in Iachino (o quanto c’è di Gaetano in Iachino e viceversa; ma questo lo lasceremo dire all’autore, nel corso del suo intervento conclusivo).
Passando in prima persona, il racconto diventa quasi più reale perché non “ingessato”, libero di fluire nella sua dinamica.
Ciò accade quando l’aereo (con a bordo Iachino e Dhakir; i due stanno fuggendo clandestinamente verso la Tunisia) cade in mare. L’autore, in quella parte, scrive due volte il fatto immediatamente accaduto:


(pag. 63, ultimo capoverso)
Gioacchino si avvicinò col suo salvagente e si accorse immediatamente di aver fatto una grossa
stupidaggine, il gonfiabile non riusciva a tenere in superficie tutti e due.
La lotta per la sopravvivenza della specie fu interrotta dalle sirene di una motovedetta.

E subito dopo, a pagina successiva (pag.64):

Ad un certo punto avvertii attorno a me qualcosa di strano.
Come se mancasse qualcosa.
Il Tunisino forse?
No, era sempre lì, decisamente preoccupato per il suo futuro prossimo ed indaffaratissimo tra i flutti.
Poi il dolce rollio del moto ondoso, piuttosto blando e molle per la mezza bonaccia..., fece sorgere in me la certezza. La risposta alla domanda che mi ero appena posto e purtroppo solo a quella.
Era una questione di suoni, come se mancasse una voce.
Mi decisi e in poche bracciate fui da Dhakir.
“Aggrappati, non so se il salvagente ce la fa ma se proprio si deve morire agonizzanti in mezzo al
mare, magari a causa di uno dei pochissimi squali del mediterraneo (pensa che fortuna!?!?), è
meglio in due. Anche per solo spirito di fratellanza tra i popoli, no? Ma questo capisce?”
Dhakir mise mano sul salvagente e poi mi disse:
“Arriva motovedetta, guarda.”
Era vero, una piccola imbarcazione dalle vaghe sembianze militaresche veniva verso di noi.
La salvezza?

E’ in questo punto che scompare ogni architettura programmata. Intanto è necessario evidenziare che “il fatto” viene descritto con sfumature leggermente diverse nelle due parti.
Nel primo pezzo, il narratore è più pratico, vede i fatti in maniera “distaccata”: vede due persone che non resisteranno a lungo su di un piccolo gonfiabile e scorge, in lontananza, una motovedetta.
Nel pezzo letto poc’anzi, Gioacchino, interviene in prima persona decidendo di fare la sua prima vera azione: cercare di salvarsi e nuotare verso Dhakir.
È sparito il narratore. Ed è da questo momento che, effettivamente, Iachino comincia a sentirsi (quasi) bene, ancora meglio che a Lampedusa (che è una delle tappe del suo peregrinare). Si sente più vero e comincia a sognare la sua vita. Solo vivendo in prima persona si può sognare e ciò diviene chiaro verso la fine del racconto.

Quando Iachino ritorna in Sicilia, ritorna anche il narratore. Ma ritorna anche la vita “ingessata” di sempre o almeno così pare!
Il prof. Ariodante è stato lontano per troppo tempo dalla sua Sicilia, ma anche dalla sua Scuola, dai suoi studenti. Gli si mostrano innanzi, avvertendoli nella loro incorporea essenza, venti impetuosi di metamorfosi nel campo dell’insegnamento che, frattanto, hanno portato l’introduzione di nuove materie scolastiche, quali, ad esempio: “Matematica Applicata Al Guadagno”, “Letteratura Aziendale”, “Educazione Fisica Delle Falangi” e tante altre.

Allora, la Sicilia, tanto sognata dal professore nel corso della sua lunga assenza, non è quella reale? E la Scuola, la sua Scuola, è cambiata? E’ questa la verità?
Ma … “… la verità è una, nessuna, centomila”.

Giuseppe Nativo

Recensione Bagni Achei. di Giovanni Denaro
Bagni achei non è stata la prima opera che ho letto di Gaetano Celestre; ho infatti avuto la possibilità di leggere alcuni racconti brevi pubblicati sul proprio blog e che hanno rappresentato una sorta di antipasto a questo suo primo romanzo.
Romanzo moderno, come lui stesso l’ha definito, ricchissimo di sfaccettature tale da non potersi classificare con facilità da un punto di vista sia del genere che della tematica. Una lettura che è scivolata via davvero con leggerezza, che non ha stancato ma che al contrario ha messo l’accento su tantissimi aspetti di un’importanza tale che sembra impossibile che l’autore sia riuscito a condensarli tutti in quest’amalgama cosi suggestiva composta da appena 133 pagine.
La storia, ambientata nella bellissima terra di Sicilia, si snoda attorno alle vicende di Gioacchino Ariodante, giovane professore di un paesino di provincia assorbito dalla normalità della quotidianità fino al giorno in cui il gioco delle circostanze fortuite e degli equivoci del caso non lo mettono di fronte a una situazione ai limiti del paradosso che cambierà definitivamente la sua esistenza.

Non già un’esistenza da definirsi mediocre quanto piuttosto una vita come tante, normale e senza grandi emozioni ed un personaggio, quello di Gioacchino, che porta con sé tutta la stanchezza e l’amarezza del vivere che Sciascia ha benissimo rappresentato in due sue opere fondamentali, “Il cavaliere e la morte” e “A ciascuno il suo”, disegnando la fragile condizione umana con spietata quanto sincera crudezza puntellata solo di tanto in tanto da punte di barocchismo appena tuttavia sufficienti a rendere affascinanti le vite di queste anime peregrine che sono i sognatori siciliani.
Pescatori, intellettuali, professori e artisti musicisti che popolano il romanzo di Gaetano Celestre e nei quali un siciliano non può non riconoscersi, perché è di noi che si sta parlando, di noi come siamo ora e di come siamo sempre stati.
Non so ben dire se Gioacchino possa definirsi un eroe, sebbene abbia letto tutta la sua vicenda ed effettivamente, se così fosse, dovremmo allora reinventare il concetto di eroe, dimenticando il bardo solitario che protegge tutti contro tutto per accogliere la ben più romantica idea di chi, solitario ciottolo sul fondo di questo oceano che è la vita, compie ogni giorno sforzi immensi per resistere alle ingiustizie della vita, o per resistere forse alla vita stessa.
Questa è la verità che traspare dalle pagine dell’opera: si resiste ogni giorno alla mestizia del vivere quotidiano, e si resiste con un senso di appartenenza alla nostra terra di Sicilia che solo si può spiegare facendo riferimento a quel sentimento sui generis che si traduce in amore e odio per una stessa cosa.

È la c.d.isolitudine, tema dolce amaro come lo è del resto la malinconia.
Un sentimento vivo di contraddizioni, l’orgoglio del nostro essere isolani unito alla condizione di separatezza che ci tiene lontani dal mondo.
” La fierezza dell’unicità e l’esilio del naufrago”, utilizzando parole di Gesualdo Bufalino che sintetizzano al lettore la sensazione di particolare abbandono cui si lascia andare il nostro pensiero, sempre in bilico tra il nostro essere e ciò che si potrebbe essere, con i piedi ben piantati in terra e la mente che va oltre il mare, a esplorare - con le intenzioni soltanto - l’altro dalla Sicilia. Per noi siciliani il viaggio non è semplicemente momento indolore, spensierata rilassatezza.
Per noi è veramente morire.
Più che un cenno merita lo stile di scrittura che posso ben definire originale e moderno- viste le numerosissime incursioni che Gaetano compie nel mondo del non-sense, dell’irrazionale e del paradosso più assoluti, sia da un punto di vista scenico che grammaticale, come il Lewis Carroll di Alice nel paese delle meraviglie; ma al contempo tradizionale come non mai, non rinunciando al dialetto siciliano a dimostrazione del grande amore verso la sicilianità tutta, soprattutto quella dei modi di dire e dei modi di fare.
Ma a sorprendere di più è forse la sottile(ma neanche tanto, a volerci ben pensare) analisi politica e sociale della nostra epoca con la quale l’autore passa in rassegna tutti gli stereotipi e i luoghi comuni tipici del bel paese in generale e della Sicilia soprattutto, affrontando tematiche di un’attualità incredibile come la mafia e gli sbarchi clandestini sulle coste siciliane, il tema delle ingiustizie e dei soprusi vecchi quanto il mondo e che dividono il genere umano in disonesti-vincenti e umili - perdenti.La storia del genere umano, di sempre.
Ed è forse questo il messaggio che l’autore vuole far passare: il mondo vive da sempre con le sue ingiustizie, con i suoi drammi, con i suoi paradossi e le sue contraddizioni, anzi vive di tutto ciò, ed è una normalità che non si può combattere ma eroicamente accettare, non già supinamente, genuflessi innanzi all’ineluttabile destino della condizione umana ma resistendo “eroicamente” in questo giardino tanto bello quanto a volte spietato.
L’amaro in bocca, questo rimane alla fine dell’opera. Se questo sapore sia spiacevole o meno, beh, questo è tutto da capire!!! Giovanni Denaro, 28/05/09.

Suggerimento per una domanda certa, di Giovanni Denaro (16 - 04 - 2010)


Quando Gaetano mi ha chiesto di buttare giù qualche riga da leggersi in occasione della presentazione di “Bagni Achei”, ho subito cercato qualche spunto che mi consentisse di andare oltre quanto avessi già scritto nella recensione.

E lo spunto mi è stato offerto da un articolo di giornale, che ha subito catturato la mia attenzione, che riportava le dichiarazioni di un esponente della classe dirigente siciliana; dichiarazioni secondo cui certa letteratura isolana- nello specifico Sciascia, Tomasi da Lampedusa e Camilleri- andrebbe per almeno un anno accantonata, boicottata perché rea di portare sfiga alla Sicilia.
Eccolo qui il mio spunto perché, lo confesso, alla lettura di tale articolo, che riportava anche le opinioni in merito di Camilleri, non ho potuto non pensare anche a Bagni Achei e a ciò che esso rappresenta, a ciò che esso suggerisce.
E a onor del vero, non avendo fatto mistero degli umori sciasciani che ho riscontrato nell’opera di Gaetano, per associazione di idee ho pensato che anche la sua letteratura nascente dovesse considerarsi alla stregua di quella succitata.
E spiego perché.

Leggendo della vicenda di Gioacchino, della sua vita quotidiana corredata di normalità e degli sviluppi successivi che l’hanno fortemente investita per poi riportarla alla situazione di partenza ,ho ritrovato l’idea della vana, e funzionale a se stessa, circolarità della vita, delle cose; un caos naturale, sempre uguale, che si ripete in una spirale monotona che sembra non lasciare spazio alla possibilità del nuovo.
La nostra giornata è fatta, come tutta la vita, di misteriose rispondenze, di sottili collegamenti, diceva Sciascia per l’appunto.
Sembra quasi una visione rinunciataria, e in parte lo è. E dico solo in parte perché la consapevolezza, acquisita in ragione dell’esperienza, rappresenta il punto di partenza non per risolvere il problema ma per porsi il problema.
Il momento cruciale è l’abbandono coatto, da parte del protagonista, delle comode abitudini e la fuga rocambolesca tra le acque del mediterraneo.

Qui colloco la chiave di lettura del romanzo.
Se da una parte sembra quasi che, a lettura finita, la storia ricominci nuovamente a riproporre lo stesso, stanco canovaccio, dall’altra parte l’acquisita consapevolezza spinge il lettore a pensare se e in che misura si possa(o si debba secondo qualcuno) riconoscersi un ruolo anche a chi sembra essere solo una pedina in questo lento scorrere delle cose. E’ vero, Gioacchino resiste, citando la mia recensione, ma indirettamente suggerisce, in forza della sua vicenda; suggerisce di assecondare ma con ragionamento, di sopportare senza soccombere, di sopravvivere e con orgoglio.

E’chiaro naturalmente che questa sorta di maturità dell’intelletto(il Gioacchino della fine è diverso dal Gioacchino dell’inizio) scateni una miriade di interrogativi, fornisca la base per dubbi sulle nostre possibilità; non già placide certezze sulle quali sprofondare ma una presa di posizione di chi, alzando la testa guarda e invita a guardare.
Per fare cosa, chiederete?

Come ho già anticipato prima, Gaetano suggerisce la necessità del porsi la domanda senza tuttavia l’ardire di fornire le comode risposte sulle quali poterci adagiare.
È dunque una spinta al cervello, uno scossone per dire che se la vita scorre come un fiume- e nessuno può invertirne la corrente- allora che si provi almeno a chiederci per quale motivo ci troviamo a cavalcare questo flusso continuo, non già per domare ma per rendere indolore- o se si riesce piacevole- questo continuo fluttuare.
Ed è un flusso che trascina di tutto con sé, disorganico e surreale, che spinge al sorriso sarcastico, acido e distaccato, e lo stile di scrittura adottato riflette splendidamente questo senso di vortice irrazionale.

L’ho ribattezzata narrativa di mezzo proprio per fare riferimento ad un messaggio letterario volutamente non circoscritto, aperto e le decisioni dell’autore anche in merito al finale della vicenda ne sono la dimostrazione.
Ed è una scelta a mio parere coraggiosa, propria quella della mancata definizione sia degli accadimenti sia dei personaggi, non ci sono vinti né vincitori,né tantomeno buoni o cattivi o, diversamente, se vi sono li troviamo tutti indifferentemente sulla stessa barca e lo stesso Gioacchino, filo conduttore della vicenda e del tutto protagonista della stessa, si presta a difficili inquadrature; è una libertà di coscienza, forse da taluno interpretabile come presunzione, nella quale si concentra una filosofia dell’esistenza fondata sul riso amaro e riflessivo.

Una frase di Goethe esprime questo concetto: “Ma voi uomini quando parlate di qualche cosa, dovete sempre dire: è pazza, è savia, è buona, è cattiva!
E questo che significa? Avete voi, che dite così, indagato i moventi interni di un'azione? Sapete scoprirne con certezza le cause, e capire perché è avvenuta e perché doveva avvenire? Se l'aveste fatto, non sareste così pronti a giudicare.”

Viviamo nell’era dell’ottimismo a tutti i costi, della bellezza formale ostentata in ogni modo, nell’era delle divisioni perfette e delle bandiere aventi ciascuno il proprio colore. E ricollegandomi, alla luce di quanto detto finora, a quello che è stato lo spunto per questa mia digressione, mi chiedo io, chi si azzarderebbe oggi a tuffarsi, a provare questi “Bagni Achei”, a parlare con i nostri vicini di mare(neppure Iachino ci avrebbe scommesso!), a sognare ad occhi aperti e ad osservare, a volte con disincanto, a volte con disgusto, ciò che esiste e ciò che è stato fatto?
Caro Gaetano, chi lo facesse probabilmente ti prenderebbe per uccellaccio del malaugurio, attentatore delle tranquillità altrui, sopite e ben ristorate.
Che cosa voglio dire con queste parole? Sarò chiaro!

Essere intontiti oggi è conveniente, è una condizione che permette di crearti attorno delle pareti di certezze relative, dai colori densi e rilassanti e che fanno appassire la naturale inclinazione alla critica e alla domanda che ognuno di noi dovrebbe invece custodire sempre. Il buon Gaetano insomma ci sta suggerendo di provare l’ebbrezza- ed è qui che si realizza la coraggiosissima scelta di cui sopra-che ci deriva dall’uso della nostra intelligenza, oggi fin troppo svilita da un uso meccanico e per nulla incline al vero e alla bellezza.
Se non bastasse sarò ancora più chiaro: Gioacchino compie quell’onirico, classicheggiante, romantico viaggio che così fortemente cattura l’attenzione del lettore senza televisione e senza polemiche di alcuna sorta, trascinato solo dalle note di un languido sax e dalle onde del mediterraneo.

Questa è la letteratura nascente di Gaetano Celestre, ripeto ancora una volta ardita nel messaggio che suggerisce, ed ecco il motivo per cui, tirando le fila di questo mio discorso e rinviando la vostra attenzione al mio incipit, colgo un nesso non indifferente con gli autori già citati, gli umili Sciascia, Camilleri e Tomasi da Lampedusa ; e come da questi già superbamente fatto, ti auguro caro Gaetano di continuare a portare avanti questo tipo di letteratura così fortemente mediterranea nei sapori, densa nei contenuti e incisiva, mordace nello stile di scrittura e ben venga sì, che questo tuo suggerimento per una domanda certa- e per mille risposte incerte, ammesso che ce ne siano- possa essere anche tacciato di “sfiga” o di scomodità, proprio ciò di cui oggi abbiamo tanto bisogno.

Concludo con una frase, che penso racchiuda il senso di quanto detto finora.
Diceva Voltaire: Giudica un uomo dalle sue domande piuttosto che dalle sue risposte.
Giovanni Denaro


Bagni Achei - Humor Acqueo, di Guglielmo Emmolo

Mi dispiace moltissimo non poter essere presente per almeno due motivi. Da un lato per l’amicizia che mi lega a Gaetano, dall’altro perché è la prima volta che mostro pubblicamente un mio video. Quindi ringrazio Gaetano, il Centro Studi Feliciano Rossitto e l’Associazione Culturale La Meglio Gioventù per avermi dato questa opportunità. Dal punto di vista tecnico Humor Acqueo è un’opera orgogliosamente dilettantistica perché realizzata con tecnologie alla portata di tutti; basti pensare che le riprese sono state effettuate con una comunissima macchina fotografica compatta. E in effetti la prima riflessione che il video può suscitare riguarda la responsabilità che tutti noi abbiamo in quanto produttori di immagini e non solo consumatori. Se criticare il potere per il modo in cui sfrutta i media è importante, credo sia quasi inutile se parallelamente non si cerca di costruire un’alternativa concreta. Da questo bisogno parte il mio lavoro: smettere di essere uno spettatore passivo e cercare di dare forma al mio immaginario autonomamente. Infondo è stata una simile necessità a spingere Gaetano a scrivere e Iachino a partire. Ho avuto la fortuna di leggere Bangni Achei prima che fosse stato pubblicato, o forse ancora prima che fosse stato scritto, avendo condiviso con Gaetano interminabili bagni e altrettanto lunghe passeggiate. Proprio per questa mia vicinanza all’autore voglio evitare in questa sede complimenti che a quasi un anno dalla pubblicazione del romanzo, detti da me, suonerebbero retorici, oltre che di parte, e scadrebbero nel già detto. D'altronde il fatto stesso che lettori sicuramente più esperti di me ed un’altra associazione culturale composta da ragazzi gli abbiano dato l’opportunità di parlare della sua opera in quest’occasione, costituisce di per sé la migliore delle gratificazioni. Mi interessa piuttosto fare una riflessione che, se più fredda di quanto si addirebbe ad un amico, avrà quantomeno il merito di essere lucida. Con ciò spero di rendere il più possibile giustizia ai meriti di Gaetano. L’ispirarsi a classici come i poemi omerici o il furioso, prendendoli come componenti testuali, per uno scrittore siciliano dei giorni nostri comporta inevitabilmente l’affrontare l’evidenza di un Mediterraneo che in passato divideva e univa contemporaneamente popoli diversi, ma che nell’era in cui si naviga più sulla rete che in mare divide più che unire; l’affrontare il problema di un assetto politico e un modello culturale che attraverso i media cerca di convincerci che siamo più vicini a un nordeuropeo o ad un nord italiano che ad un nordafricano, tagliando così una parte consistente delle nostre radici. Ma più che le tematiche di scottante attualità quello che mi preme mettere in luce è il modo col quale è riuscito ad esporle. Da questo punto di vista Bagni Achei risulta un libro non semplice da leggere, ma che allo stesso tempo si fa leggere piacevolmente grazie alla costante ironia del narratore. Ma chi è questo narratore? Quello onnisciente che usa la terza persona o il protagonista stesso che si racconta in prima? E chi è il protagonista Gioacchino o Iachino? E chi tra i tanti Iachini che si immergono e riemergono numerose volte dal mare. Un mare concreto e fatto di acqua quanto metaforicamente rimandante ad una dimensione altra della mente. Sarebbe altrettanto lecito porsi analoghe domande riguardo altri importanti personaggi come l’antagonista Santino, la bella Dike o lo stesso Garibaldi; domande, comunque, alle quali sarebbe difficile rispondere con nettezza. Tanto la critica contemporanea quanto i migliori detective in casi ambigui come questo consigliano di partire dai quei punti della narrazione che risultano particolarmente anomali e che più mettono in crisi la coerenza del racconto, quei punti che lo fanno vibrare. Tra i tanti punti di vibrazione presenti nel romanzo uno mi è sembrato particolarmente significativo. Non credo sia un caso che si trovi a metà del libro. Iachino trovandosi “per l’ennesima volta, nel giro di poco tempo, in balia delle procellose onde” si immerge nuovamente nel lato oscuro della sua mente dove la guida Dike lo mette davanti a delle prove da superare. Il protagonista, adesso anche narratore, afferma: ”Non ero più me stesso ma qualcun altro. A sua volta qualcun’altro non era più sé stesso ma me”. E’ rilevante il fatto che la prova che segue questa affermazione faccia riferimento ad un esame di Diritto, rimandando non troppo velatamente all’esperienza di vita dell’autore stesso. Rilevante perché l’esito della prova, il pareggio, deludente dal punto di vista del lettore, porta quest’ultimo a ricercare la tensione narrativa fuori dalla narrazione, nel rapporto tra i personaggi e l’autore. Infondo Gaetano ha messo un po’ di sé anche nel cattivo Santino. Ed è qui, oltre che nelle tematiche trattate, che risiede l’attualità di un romanzo che si mostra nel suo farsi. In un autore che scende dal piedistallo e si mostra come uomo comune con le sue contraddizioni, ma che mette alla prova il lettore ricordandogli che ogni atto di lettura è già un riscrivere la storia letta. Proprio per questo non viene imposto nessun finale. Anzi è l’autore stesso che ci rende partecipi delle sue perplessità riguardo il mettere la parola fine ad un racconto. Se poi focalizziamo la nostra attenzione sul piano delle singole parole, queste si mostreranno non meno aperte della narrazione. Esse, infatti, vengono mostrate al lettore con manifesta arbitrarietà nei loro molteplici significati, nella loro crisi d’identità. Capita ad esempio che la parola “guida” venga usata, nel giro di queste poche pagine, sempre per definire il ruolo di Dike ma nei modi più bizzarri. Ad esempio quando Iachino spaventato dall’esame si rivolge alla Dea usando il vocativo: “O guida dello studente, io non so niente di queste cose.” O quando paragona la Dea-guida alle istruzioni per montare sedie: ”Era una guida di poche parole, come la guida di certe sedie in kit da montaggio”. E successivamente quando interrogato da Dike sull’esito dell’esame non sa rispondere: “Beh sì, credo, anzi, effettivamente, beh, pesandoci bene, o Dea, forse no, vero? Ma la sedia doveva costruirsi senza tante istruzioni così continuai.” Questo giocare al limite del nonsense, che superficialmente può sembrare banale umorismo, fa riflettere sul meno divertente problema odierno riguardante parole, che storpiate nell’uso che ne fanno i media, perdono il loro significato fino a non significare più niente. D'altronde cosa c’è di più paradossale di una società nella quale la comunicazione è resa impossibile proprio da un eccesso di comunicazione? Un problema simile riguarda le immagini che costituiscono un linguaggio al pari delle parole. Ignorare questo linguaggio significa subire il forte impatto emotivo che queste causano senza il filtro della ragione. Un po’ come navigare su internet senza antivirus. Da qui nasce il mio desiderio di mostrare la realtà in maniera alternativa, cercando di imporre allo spettatore il dovere di farsi e fare domande su ciò che sta vedendo. Il mio esperimento è partito fissando una macchina fotografica capace di registrare video ad un supporto metallico che ho appeso ad uno spago. Facendo ruotare il tutto ho ottenuto movimenti di macchina circolari e veloci e una visione distorta dell’ambiente circostante. In quest’ottica la morfologia del paesaggio crea un ritmo visivo e la proprietà primaria che rende ogni cosa percepibile all’occhio, ovvero la capacità di riflettere la luce solare, riacquista con maggior evidenza la sua centralità. Inoltre l’apparente distinzione tra due concetti come lo spazio ed il tempo si rivela nella sua relatività e nella sua labilità. Alle riprese è seguita la fase di montaggio e ulteriore alterazione tanto delle immagini quanto dell’audio, in modo da fondere le vibrazioni luminose a quelle sonore. Ma prima di parlare brevemente di quest’altra fase e dei rapporti con Bagni Achei è più giusto che vediate il video. Non voglio influenzare la vostra visione più di quanto avrò già fatto con queste prime suggestioni.



Seconda Parte (letta dopo la visione del filmato):



Quando Gaetano mi ha chiesto di realizzare un video correlato al suo romanzo ho accettato subito senza riserve, perché il dialogo e le relazioni tra diversi linguaggi artistici mi hanno sempre affascinato particolarmente. Non è un caso se ho scelto di studiare al DAMS. Oggi si fa un gran parlare della multimedialità intesa come uso e sovrapposizione simultanea di più linguaggi alla ricerca di un’arte totale. Troppo spesso però si cade nell’errore di produrre una mera somma di linguaggi senza che questi dialoghino realmente tra di essi. Ancora più spesso il video in questa somma viene asservito agl’altri linguaggi al punto di diventare mera decorazione. Non volendo cadere in questi errori, ho scelto di affrontare il problema dal punto di vista dell’intermedialità, ovvero l’estensione reciproca dei singoli linguaggi. Infondo Gaetano non mi ha chiesto di realizzare uno spot pubblicitario per il suo romanzo ma un video autonomo che si ispirasse ad esso e che dialogasse con esso; operazione, questa, tutt’altro che semplice dal momento che il mio linguaggio è quanto di più lontano possa esserci da quello della scrittura. La videoarte o meglio le arti elettroniche, dal momento che l’audio non è affatto secondario al video, costituiscono all’interno della storia del cinema la continuazione dell’esperienza delle avanguardie e del cinema astratto, mediante l’uso delle nuove tecnologie: il tubo catodico dagli anni sessanta e il computer adesso. Con queste premesse l’operazione concreta che dovevo compiere era di rendere i concetti che stanno alla base del romanzo a livello di metafore visive e sonore, ed allo stesso tempo riflettere sull’atto di vedere in maniera analoga a come lo scrittore riflette su quello di scrittura e lettura. Infatti il titolo del mio lavoro fa riferimento tanto all’umorismo col quale Gaetano gioca con le parole quanto all’umore acqueo, senza h iniziale, che sarebbe un liquido presente nella pupilla e fondamentale per il funzionamento dell’occhio. Detto questo, se i concetti più profondi del romanzo sono meglio percepibili nelle parti più anomale della narrazione, il mio compito è stato quello di rappresentare il punto di vista di Iachino nell’attimo in cui, rischiando di annegare, perde coscienza. Quindi dilatare ed analizzare quel momento di cui non ricorda nulla e che ha descritto come buio. Da qui la scelta di realizzare un video brevissimo ma tanto denso da contenere il senso più profondo, e quindi più superficiale, dell’intero libro: l’inafferrabilità del significato dell’esistenza umana. Per fare più chiarezza mi affido alle parole del grandissimo regista Michelangelo Antonioni:
“Sottoponendo la pellicola impressionata a un determinato processo detto di latensificazione, si riescono a mettere in evidenza elementi dell’immagine che il normale processo di sviluppo non basta a rilevare (…) Forse la pellicola registra tutto, con qualsiasi luce, anche al buio (…) Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione d’essere.”
Per illuminare questo buio e riempire questo vuoto della narrazione ho cercato di mostrare una temporalità non lineare, composta da dimensioni parallele che possono anche unirsi per un attimo per poi risepararsi, ricollegandomi così a Iachino che rivive in un breve sogno un pezzo di vita del suo stesso autore. Ho scelto, quindi, un montaggio orizzontale del girato; ovvero ho inserito all’interno dello stesso quadro riprese di luoghi diversi nelle quali la macchina fotografica gira a velocità differente, ma che si fermano e cambiano senso di rotazione nello stesso istante. In tutto ciò i luoghi attorno a Scicli, anche se vistosamente deformati, costituiscono il principale oggetto del video e rappresentano il più visibile legame tra Humor Acqueo e Bagni Achei. Se è vero, come dice Gaetano, che l’unica cosa certa riguardo la parola “fine” è che apre un altro discorso, giunto anch’io al termine del mio intervento, lo concludo condividendo con voi quello che è stato il punto di partenza di questo mio lavoro: la dedica che l’autore ha scritto sulla mia copia.
Caro Guglielmo, a mesi di distanza, da quando ho messo l’ultimo punto alle parole aperte di questo libro, mi fermo spesso a riflettere sulla mia presunzione. Quella che mi fa credere fermamente nei luoghi che ci hanno ospitato durante le nostre passeggiate. Che siano stati loro a raccontarmi di Iachino?
Ti auguro buona lettura

Guglielmo Emmolo



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